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Venezia 65: Achille e la tartaruga – Inju la bete dans l’ombre – Pokrajina St. 2 –

Venezia 65 Akires to Kame (Achilles and the Tortoise), di Takeshi KitanoAchille e la tartaruga dovrebbe essere la terza e ultima parte della “trilogia del suicidio artistico” che Kitano ha iniziato nel 2005 con Takeshis’ e continuato nel 2007 con Glory to the Filmmaker!, entrambi visti a Venezia e per il sottoscritto i meno riusciti

29 Agosto 2008 14:30

takeshi_kitano 29 Venezia 65
Akires to Kame (Achilles and the Tortoise), di Takeshi Kitano

Achille e la tartaruga dovrebbe essere la terza e ultima parte della “trilogia del suicidio artistico” che Kitano ha iniziato nel 2005 con Takeshis’ e continuato nel 2007 con Glory to the Filmmaker!, entrambi visti a Venezia e per il sottoscritto i meno riusciti del regista.

C’era molta attesa, ma anche molta preoccupazione, per questa pellicola, ma via ogni dubbio: rubando una frase che qualcuno ha affisso nella zona Garden, Kitano è tornato a fare cinema. Il suo cinema. E, per quel che mi riguarda, Achille e la tartaruga ha poco o nulla da spartire con i precedenti due capitoli. Qui siamo in zona di assoluta e disarmante sincerità.

Kitano sembra affrontare finalmente in modo decisivo la sua figura, non con episodi e scenette come negli altri due film, ma con un’idea ben precisa e comunque non poco pericolosa: girare un film dai toni autobiografici che sia anche un po’ la summa del suo pensiero sul cinema, sull’arte e della sua filmografia.

Si parte con la spiegazione del paradosso di Zenone in stile anime, per passare poi al vero film, diviso in quattro parti che narrano ognuna una parte di vita di Machisu, che sin da piccolo ha voluto diventare un pittore. Nel tempo però questa professione non sembra portargli fortuna, e intanto attorno a lui la situazione familiare e sentimentale non va affatto benissimo…

Riuscirà quindi Machisu a realizzare il sogno e affermarsi come pittore, così come Achille vorrebbe raggiungere la tartaruga? Le anime più sentimentali preparino i fazzoletti, perché il finale è di rara semplicità ma diretto. Nel film c’è un po’ de L’estate di Kikujiro, c’è Hana-Bi, c’è anche la follia delirante e la comicità di Getting Any? e dei due episodi precedenti della trilogia, e c’è un’idea di cinema come parte della vita (ma tuttavia, visto che è arte, come illusione) che Kitano analizza da diversi film. Non perfetto e neanche fra i suoi capolavori, anche perché la prima parte è decisamente troppo musicata e i morti non si contano, ma un bel passo in avanti.

Inju, la bete dans l’ombre, di Barbet Schroeder
Schroeder nei suoi thriller ha quasi sempre voluto, nel suo piccolo, tentare di mischiare le carte in tavola del genere. Film come Il mistero Von Bulow e Inserzione pericolosa a loro modo tentano di dire qualcosa in modo intrigante, elevandosi sopra la media della produzione hollywoodiana. Certo, poi il regista ha diretto La vergine dei sicari (che ha spezzato la critica, ma è interessante) e il deludente Formula per un delitto, e forse non sapeva più che strada prendere.

E’ dovuto andare in Giappone per scoprirlo, affrontando la materia letteraria. Qui infatti uno scrittore francese (Benoît Magimel, visto ne La Pianista e L’innocenza del peccato), famosissimo nella terra del Sol Levante, dovrà affrontare un misterioso scrittore che vende palate di libri ma che nessuno ha mai visto dal vivo. Conoscerà una geisha che pare perseguitata proprio dallo scrittore, e iniziano i guai.

Il film si apre con una sequenza che è un film nel film, ed è chiaro sin da subito come Schroeder voglia continuare a giocare con le aspettative del pubblico. Ma questa volta qualcosa è andato davvero storto e il regista ha perso il timone del suo film. Inju poteva non solo essere una delle rivelazioni della Mostra, ma anche il miglior film di Schroeder, ed invece è un brutto passo falso. Movimenti di macchina, fotografia e colonna sonora vorrebbero portarci in un mondo perverso, teso e misteriosamente oscuro, ma l’intreccio si risolve in pochissimo tempo, tanto che il lunghissimo “spiegone” finale risulta fuori luogo.

Comprendo le sue intenzioni e immagino come avrebbe potuto essere il film in un altro modo, e la delusione è ancora più forte. Se contiamo poi che ci sono vari momenti in cui la sottile linea tra verosimile e implausibile viene spezzata, non ci si salva facilmente. Qualche momento di tensione nella prima parte in cui il regista rispunta c’è, ma è poco per risollevare Inju dalla delusione che è.

Giornate degli autori
Pokrajina St. 2 (Landscape No.2), di Vinko Moderndorfer
Un thriller sloveno: quantomeno insolito, e quindi curioso. Si parla di quadri rubati, di post-Seconda Guerra Mondiale, di tradimenti, di politica, di omicidi. Se all’inizio la pellicola può incuriosire è per la poca destrezza che noi italiani abbiamo con i film sloveni: poi il tutto scema irrimediabilmente. Non solo in una storia che non presenta colpi di scena e brividi, ma che ha soprattutto alcune cadute. Tra scene di sesso gratuite e omicidi (alcuni ben sanguinosi) rovinati da inutili e grottesce accelerazioni, sembra la fiera del luogo comune del genere e anche un po’ la sua parodia: notare come il killer ottenga in modo facilissimo le informazioni che gli servono.

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