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Come un tuono: il dna e il passato del posto al di là dei pini

“Come un tuono”, il film che riunisce Derek Cianfrance e Ryan Gosling, ragiona su famiglia, tempo e relazioni, sulle responsabilità dei padri e sull’eredità dei figli. Ma è soprattutto un’opera che ragiona su un luogo: un’ambientazione che ha un suo dna e una sua storia. Una riflessione sul film ora in sala.

pubblicato 6 Aprile 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 16:04

Attenzione agli spoiler: non leggete se non avete visto Come un tuono e il film precedente di Cianfrance, Blue Valentine.

C’è un posto al di là dei pini: per raggiungerlo bisogna attraversare il bosco. Attorno ad esso c’è una piccola città di periferia a tre ore da Manhattan: Schenectady. Quando agli inizi del 1600 i colonizzatori olandesi arrivarono nel Nord America nella terra che oggi è la cittadina di Schenectady, la tribù dei nativi Mohawk indicò loro la zona oggi rappresentata dalla vicina città di Albany nominandola Schau-naugh-ta-da (the place beyond the pines) .

Ma gli Olandesi capirono il contrario, e quindi denominarono Schenectady proprio la terra dei Mohawk. Nel film di Derek Cianfrance c’è un posto ben definito al di là dei pini: è la casetta in cui vive il meccanico Robin, un uomo solitario che con sé ha solo un cane che sta invecchiando. È il posto in cui si incrociano la storia di Luke Glanton, stuntman motociclista che lavora per un circo itinerante, e quella del figlio Jason, che non sa nulla del padre.

Ha il sapore della parabola, Come un tuono, nel suo percorso che arriva lì dove te lo aspetti, perché è proprio lì che si deve arrivare. Ha anche il sapore della tragedia greca, visto che il destino dei suoi personaggi è già segnato dal fato. Però quando si parla di cinema indie americano – e ce lo hanno ricordato anche altri film recentissimi, da Spring Breakers ad At any price passando per Re della terra selvaggia -, si parla innanzitutto di luoghi. Mai sottovalutare le intenzioni dei filmmaker americani rispetto all’identità dell’ambientazione: perché i personaggi ne sono i prodotti.

Quando si parla del film precedente di Cianfrance, Blue Valentine, si discute sempre del tempo (fattore che logora la relazione dei protagonisti in una parabola molto comune nelle storie d’amore) e del modo in cui il regista alterna scene del passato e del presente. Anche In Come un tuono il tempo è componente fondamentale della narrazione e della costruzione del film: diviso in tre atti, dove nei primi due Luke e il poliziotto Avery si passano la staffetta in modo temporalmente consequenziale, il film si permette anche una cesura di 15 anni per raccontare la storia dei figli Jason e AJ.


Cianfrance, dividendo il suo film in tre parti, racconta un’epopea familiare contemporanea dentro tre cornici diverse che si rifanno ad altrettanti generi cinematografici: il noir criminale, il poliziesco e il coming-of-age. Nel primo assistiamo al cambiamento di un padre disposto a tutto per garantire un futuro al figlio, anche a diventare un delinquente. Nel secondo assistiamo alla storia di un poliziotto in servizio da 6 mesi che combatte contro tutti pur di smascherare la corruzione all’interno del suo dipartimento, salvo poi diventare anche lui un poliziotto identico ai suoi colleghi. Nel terzo assistiamo alle storie di due adolescenti alle prese con i problemi, le inquietudini e il vuoto dell’adolescenza.

Tutto è legato assieme, tutto è conseguenza delle scelte degli altri personaggi. Quel che interessa al regista, in questo progetto folle, forse un po’ sbandato ma coraggiosissimo, è riuscire a cogliere la natura di questi personaggi. Basta vedere come affronta la storia tra Luke e Romina: storia che, per ragioni di intenti e spazio, non ha la stessa intensità di quella tra Dean e Cindy in Blue Valentine, certo. Però ci sono molti punti comuni tra le due relazioni: un passato che non tornerà più nonostante si provi a ricominciare, il tempo che ha cambiato le coordinate della vita dei singoli, un figlio che crescerà senza padre.

Come in Blue Valentine, anche qui ci sono attimi di passato purissimo che si accendono all’improvviso. Nel film precedente erano un continuo flusso di ricordi che venivano contrapposti al presente logorato. In Come un tuono, il passato in cui potersi rifugiare per almeno un secondo è rappresentato da una fotografia. Lo scatto rappresenta una famiglia che non sarebbe mai più stata quella famiglia: Luke, Romina e Jason. Quando il ragazzo scopre la foto nel portafoglio di Avery, la invia alla madre: perché quel passato appartiene certamente anche a lui, ma quel preciso momento in cui si pensava di poter essere felici appartiene soprattutto a Romina.

Il tempo poi ha dimostrato il contrario: essere una famiglia a Schenectady è quasi impossibile, tanto quanto lo era a Scranton, Pennsylvania in Blue Valentine. Non a caso anche Avery divorzia dalla moglie. Due facce della stessa medaglia: ma non perché Luke e Avery sono più simili di quanto si pensi, ma perché innanzitutto sono fatti dello stesso dna. Se Cianfrance vuole cogliere la verità dei personaggi, vuole cogliere anche la verità del luogo: il titolo originale dovrebbe essere già un campanello d’allarme. Come un tuono rappresenta il tentativo di un regista di tracciare la mappatura geografica su celluloide di un posto, catturandone il dna, il suo passato, la sua storia e i suoi fantasmi (il cimitero!).


Solo partendo da qui si può parlare delle colpe dei genitori che ricadono sui figli, di eredità di una famiglia e tutte quelle argomentazioni con le quali Come un tuono viene e verrà analizzato. Se queste argomentazioni le diamo per vere, allora è normale che Jason finisca come il padre, no? Invece Cianfrance si dimostra ancora una volta più avanti della teoria delle “colpe dei padri” che giustificherebbe la parabola del film. Jason non è condotto per forza di cose a fare la fine del padre: al contrario si prende in mano la sua vita, decidendo di comprare una moto e fuggire via. Coscientemente? Forse.

Sbaglierà, farà la cosa giusta, tornerà indietro, verrà ucciso da un poliziotto perché diverrà un criminale: chissene, per ora. La sua è una scelta genuina, quanto genuino perché non giudicante è il modo in cui Cianfrance ci conduce verso questa decisione che sì, un po’ inquieta (avrà delle ripercussioni questa scelta, no?), ma in fondo stringe il cuore. Perché in una scelta del genere, in questa voglia di fuggire da Schenectady al di là dei pini, c’è anche una bella dose di innocenza e magari anche di ingenuità.

La stessa innocenza e la stessa ingenuità che Jason dimostra di avere nella scena più bella e toccante del film: quella che, dopo essere stato da Robin nella casetta dove un tempo lavorava Luke, lo vede correre in bicicletta per la strada che collega la cittadina al posto dietro ai pini. Probabilmente Jason non ci sta pensando, ma è la stessa strada che percorreva il padre in moto. Costruita sulla stessa terra in cui, secoli fa, camminavano i Mohawk.