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Toy Story 3: un film postmoderno già diventato classico

Toy Story 3 (qui la nostra recensione) è una delle opere più importanti degli ultimi anni, oltre ad essere assieme per ora ad un altro paio di titoli uno dei più grandi film del 2010. Nel 1995 la Pixar ha riscritto la storia dell’animazione, e quindici anni dopo torna a ribadire il concetto: assieme a

pubblicato 14 Luglio 2010 aggiornato 1 Agosto 2020 22:37


Toy Story 3 (qui la nostra recensione) è una delle opere più importanti degli ultimi anni, oltre ad essere assieme per ora ad un altro paio di titoli uno dei più grandi film del 2010. Nel 1995 la Pixar ha riscritto la storia dell’animazione, e quindici anni dopo torna a ribadire il concetto: assieme a Hayao Miyazaki non ce n’è per nessuno.

Perché innanzitutto nella casa di Lasseter, come e quanto accade nello Studio Ghibli, c’è una consapevolezza di fondo che non è da sottovalutare: quella che l’animazione non è un genere, bensì una forma d’espressione “come un’altra”. Con le sue regole e i suoi stereotipi, ovviamente, che però possono essere revisionati, utilizzati e modificati. La storia di base del terzo Toy Story è ricalcata sul modello dei due episodi precedenti, ma al cinema conta il come si racconta una storia, e in casa Pixar l’hanno capito benissimo. E sanno anche che un’altra cosa che conta sono i personaggi.

Tante piccole e significative consapevolezze che vanno a formare una poetica ormai celebre ed acclamata sia da critica che da pubblico, per una volta a braccetto senza troppe voci fuori coro. Il che potrebbe anche far scattare qualche dubbio ai più critici e maliziosi: ma come si fa ogni volta che si riaccendono le luci in sala a non restare contenti?

Toy Story 3: un film postmoderno già diventato classico
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Toy Story 3: un film postmoderno già diventato classico
Toy Story 3: un film postmoderno già diventato classico
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Toy Story 3: un film postmoderno già diventato classico
Toy Story 3: un film postmoderno già diventato classico

Toy Story 3 è postmoderno tanto quanto Shrek, e in generale la Pixar è postmoderna tanto quanto la Dreamworks. In entrambi i casi si gioca con i generi, si preme spesso l’acceleratore sulle risate e sulla parodia, si strizza l’occhio al pubblico con le citazioni più stratificate. Ma c’è una differenza di fondo che segna lo scarto tra i due mondi (perché di due mondi differenti si parla). Prendiamo alcune citazioni di Toy Story 3: il ruggito di Rex nell’impressionante prologo richiama il ruggito dei tirannosauri di Jurassic Park (e non è la prima volta nella saga: quasi una “mise en abîme” che ci dice molto sul giocattolo verde), Il ritorno dello Jedi è presente quanto L’impero colpisce ancora in Toy Story 2, e il pupazzo di Totoro ammicca alla stima che c’è in casa verso Miyazaki.

Non sono citazioni tanto quanto quelle di un Kung Fu Panda (non il peggior Dreamworks peraltro, anzi)? L’impressione generale è che la Pixar non abusi però delle strizzatine per costruire i suoi film tanto quanto la casa “avversaria”, ed è un discorso comunque condivisibile, ma che non è il punto centrale della differenza fra le due case. E allora prendiamo a prestito un personaggio di Toy Story 3, ovvero Lotso, l’orsacchiotto di peluche che sa di fragole.

È semplicemente tra i villain più credibili e inquietanti dell’ultimo periodo per la sua statura drammatica. Appresa la sua storia attraverso un flashback (narrato da un clown dal sorriso all’ingiù…), si capisce che Lotso ha la grandezza dei veri villain: di quelli per cui si prova odio ed indulgenza, paura ed empatia. Un personaggio come Lotso non lo troveremo mai in un film Dreamworks, perché (per ora: con Dragon Trainer le cose sembrano cambiate) non c’è voglia e forse non c’è tempo per pensare ad un personaggio del genere, e si preferisce il calderone.

Toy Story 3 diventa ad un certo punto un prison movie dalle sfumature orwelliane ambientato in un asilo ironicamente chiamato Sunnyside, ha all’interno le più paurose scene horror dell’anno e la scena più disturbante, quando i protagonisti nell’inceneritore non vedendo alcuna via d’uscita si stringono tutti le mani per andare incontro alla loro fine. Eccolo ancora, il postmoderno: Toy Story 3 gioca con i generi. E gli riesce benissimo, tra l’altro. E sta proprio qui il punto, perché il film non avrebbe funzionato senza una cosa fondamentale in un film d’animazione che gioca con citazioni, parodie e filoni: la sceneggiatura. Che ha – e non è affatto un paradosso – la solidità dei classici.

Toy Story 3 è un film postmoderno ma è a tutti gli effetti un film classico, che riesce anche a dirci alcune cose interessanti sull’amicizia e sul concetto di maturità (quanto è potente il finale del film?). Forse continuare ad interrogarsi su cosa sia il primo e cosa sia il secondo non ha (più) senso, ma il discorso qui sembra calzare, mentre forse in casa Dreamworks non hanno ancora imparato. E non è un caso se Shrek con l’ultimo capitolo rischi di far uscire delusi tutti: l’unico classico di casa per loro rischia davvero di essere solo Dragon Trainer (il film d’avventura dell’anno!). A meno che nel sequel non decidano di andare su terre già battute, facili, già viste, rischiando in parte di annullare nella mente del pubblico la potenza del capostipite.