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Ana Arabia: Recensione in Anteprima del film di Amos Gitai

In una terra di confine, in cui religioni e culture si mescolano, Amos Gitai appronta un ritratto sottile e delicato sul Medioriente al giorno d’oggi attraverso il suo Ana Arabia, in Concorso alla Mostra di quest’anno

pubblicato 3 Settembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 10:08

Medioriente, una delle zone geopoliticamente più calde del pianeta, punto di snodo tra più culture. Siamo in Terra Santa, da secoli e secoli anche terra di conflitti, amaramente riaccesi a metà del secolo scorso. Una faida che supera il logorio del tempo, atavica, quella tra popolo arabo e popolo ebraico. Una convivenza apparentemente impossibile la loro, il cui contatto è costantemente minacciato da sproloqui territoriali di gruppi ai quali nulla interessa in realtà del bene della propria gente, figuriamoci di quella altrui.

A debita distanza però dalle aree in cui si commettono stragi e crimini di ogni genere, per il suo Ana Arabia Amos Gitai si affida alla tranquillità di una zona periferica ma non meno carica di fascino, ossia Giaffa. A contatto col popolino, quegli ultimi esaltati dalle Scritture, mentre cerca di penetrare il “mistero” di quest’odio così remoto ed altrettanto cementificato. Accostandosi a gente semplice, quella incline a raccontare e raccontarsi, nel tentativo di offrire uno sguardo discreto su una faida che si trascina da tanto, troppo tempo; forse da sempre.

Nel film seguiamo una giornalista che si insinua in un piccolo sobborgo al confine con la già citata cittadina israeliana, in un più che modesto complesso di case abitate da arabi ed ebrei insieme. Qui cominciano le indagini della bella Yael, che dovrà raccogliere storie, aneddoti ed umori della gente che vive lì. Gente semplice, come già ravvisato, quasi del tutto avulsa da istanze ideologiche ancor prima che religiose; persone che hanno in qualche modo a cuore la propria esistenza, che non intendono sprecare in un astio perenne.

Ognuno racconta qualcosa, magari un pettegolezzo, recente o meno che sia. C’è chi si confida, c’è chi si mostra diffidente, e c’è chi prosegue la giornata come se nulla fosse. L’intento dichiarato di Gitai pare essere quello di imprimire su pellicola un frammento specifico di una normale giornata in quel luogo così povero. Ecco perché tutto è subordinato alla scelta di girare l’intero film sotto forma di unico pianosequenza, della durata di 85 minuti. Decisione ardita, che non a caso implica rischi che in parte si materializzano. Tra questi c’è senz’altro il pericolo di appesantire una narrazione che, a conti fatti, viene portata avanti solo ed esclusivamente dai racconti dei vari “intervistati” che si avvicendano lungo il corso il dipanarsi della visita. Nel tentativo di trasporre una porzione quanto più fedele di realtà, l’interessante proposito di Gitai si scontra inevitabilmente con un ritmo piuttosto lento, in maniera a tratti compromettente.

Non sempre, infatti, si riesce ad entrare in sintonia con quanto i personaggi vanno raccontando, quantunque il regista israeliano non intenda instaurare una specifica empatia con loro. Come Yael, a noi tocca solo annotare sul nostro taccuino quanto recepiamo dal nostro confrontarci con una realtà che volendo ci è aliena, coltivando la pazienza di ascoltare, magari con interesse. E si tratta di un limite, senz’altro contemplato a tavolino, al fine di seguire con costanza i discorsi a cui ci prestiamo.

Da un punto di vista meramente tecnico, l’impegno è apprezzabile. Gitai e la sua troupe hanno girato Ana Arabia interamente per ben dieci volte, optando alla fine per l’ultima ripresa, a dire dello stesso regista «l’unica utilizzabile». Arguta poi la scelta di girare ad un’ora del giorno che permettesse di catturare su pellicola il protrarsi del tempo, cosicché ad un certo punto luci e colori cominciano a mutare per via dell’incombente tramonto. Encomiabile pure la prova degli attori, specie della protagonista, che regge l’ora quasi e mezza con disinvoltura, per quanto sia colei che ha meno battute.

Insomma, Ana Arabia è un film dall’innegabile sensibilità; nel suo piccolo, pure ambizioso. Tuttavia non possiamo fare a meno di constatare la sua contenuta accessibilità, circoscritta ad un pubblico più che ben disposto a lasciarsi prendere per mano fiducioso, presupposto che non deve essere dato affatto per scontato. Restano alcuni momenti interessanti, come quando i tre anziani cominciano ad interagire tra loro, o quando una donna parla con ambigua nostalgia del proprio uomo. Resta una lunga conversazione corale dal tono delicato, riguardoso, con anime appartenenti ad un ambiente che senza dubbio non conosciamo abbastanza; uno sguardo a suo modo appassionato su una terra di confine, benedetta dal Signore con i doni che le ha elargito; ma benedetta anche dall’uomo, sempre pronto ad innaffiare e tingere col sangue tali divine e gratuite bellezze.

Voto di Antonio: 6,5
Voto di Gabriele: 5

Ana Arabia (Israele, Francia, 2013) di Amos Gitai. Con Yuval Scharf, Sarah Adler, Yussuf Abu Warda, Uri Gavriel, Norman Issa, Shady Srur ed Assi Levy.