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Abel Ferrara: un filmaker a passeggio tra i generi

Esce in libreria Abel Ferrara: un filmaker a passeggio tra i generi di Fabrizio Fogliato. Una corposa ed interessante analisi dell’intera filmografia del cineasta italo-americano, indispensabile per i suoi estimatori

pubblicato 23 Novembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 06:59

Cinema come viaggio, come avventura. Perdersi nei meandri dell’esistenza, scandagliando gli angoli bui non solo per sondare l’oscurità ma soprattutto per comprendere dove sia la luce e quale sia il suo valore. Questo è ciò che traiamo dall’esperienza di Abel Ferrara dietro la macchina da presa, uno che s’incazzerebbe qualora osaste porgli la realtà da un lato e il cinema dall’altro – celebre in tal senso una sua affermazione relativa all’inscindibilità delle due cose.

Il lavoro del Professor Fabrizio Fogliato ci parla esattamente di questo viaggio nel suo Abel Ferrara – Un filmaker a passeggio tra i generi (Ed. Sovera, 2013). Una ricerca condotta con l’occhio di chi Ferrara non soltanto lo conosce, ma lo ha interrogato, partendo e soffermandosi proprio su ciò che più conta, ossia la sua opera; perché come diceva qualcuno, non c’è miglior modo di sondare il valore di un artista, ciò che gli sta più a cuore.

Nel caso del controverso cineasta newyorkese, molto è stato già detto e si dà per assodato. Uno che si è sempre domandato come fosse possibile trattare tematiche diverse da quelle che lo hanno accesso sin dall’inizio, infiammando una filmografia costantemente attenta a guardare l’uomo dall’interno, quasi mai dall’esterno. L’uomo. Ecco l’unica o quantomeno la più sincera preoccupazione di Ferrara. Che si sia trattato di film, così come di un “semplice” videoclip o di una serie TV, per il regista italo-americano una cosa sola ha avuto importanza, ossia capire come realmente possa o debba porsi l’uomo dinanzi all’atavica questione che oppone il Bene al Male e viceversa.

Sovente disordinato, talvolta eccessivamente viscerale, in ogni caso mai banale. E ce ne vuole di attenzione e profondità di giudizio per scorgere in certe sue derive apparentemente naif l’anima di un regista il cui operato non ha mai risentito di compromessi. Fogliato, attraverso un percorso che si snoda attraverso 400 pagine e quasi quarant’anni di carriera, ci obbliga a riflettere proprio intorno a questa lunga e tortuosa parabola. Ascendente? Discendente? Non importa. Perché l’approccio non è semplicemente quello di un addetto ai lavori (sic), bensì di colui che ha frequentato i luoghi, i tipi, le vicende partorite da Ferrara insieme ai suoi collaboratori nel corso degli anni.

A partire da Nicholas St. John, storico sceneggiatore di Ferrara, che ad un certo punto ha visto allontanarsi l’amico di sempre perché quest’ultimo tendeva a non credere più nella propria missione. Sì, esatto, missione. Perché a questo magmatico duo è toccato un lavoro al quale tanti altri si sono sottratti, pur essendo indispensabile. Poiché il cinema, in quanto espressione di un secolo (il ventesimo) ed ultima Arte, non può esimersi dal sondare un tale mistero, per giunta da una posizione privilegiata per via della natura stessa del mezzo, volta a mostrare prima di ogni altra cosa.

E a questo scopo è sempre stata rivolta la vocazione di Ferrara, che attraverso una lente non ha mai smesso di sforzarsi a mostrare ciò che non si vede, eppure si sente eccome. L’autore di Un filmaker a passeggio tra i generi in fondo vuole dirci proprio questo, evidenziando con dovizia di contenuti e di forma la necessità di recuperare un’opera da cui non solo il Cinema (quello con la C maiuscola) non può prescindere, ma soprattutto le persone. Non una categoria al suo interno, maldestramente estrinsecata come non di rado si fa quando si allude ai cosiddetti cinefili (?). Nient’affatto. Fogliato parla a tutti e vuole farsi ascoltare da tutti, dribblando il pregiudizio ed il partito preso, nonché accantonando certe barriere all’entrata, senza però disconoscerle.

Perché il desiderio di accessibilità mai sembra prevalere sull’esigenza di verità nel lavoro dell’autore di questo libro, che non rinuncia alla ricerca seria e appassionata per amore di rendere il tutto alla portata di tutti. In realtà la struttura stessa dell’opera la dice lunga in tal senso: come già accennato, l’ossatura è segnata dai film di Ferrara. Ogni film un corposo approfondimento, che non disdegna la speculazione tecnica così come la più “superficiale” descrizione, magari sotto forma di recensioni. Quest’ultime tratte anche da fonti che nulla hanno a che vedere con l’autore, così che il lettore possa farsi un’idea circa il modo in cui i vari film sono stati recepiti dalla critica nel corso degli anni.

Un impegno a 360 gradi, “incompleto” per statuto, poiché Fogliato è il primo ad ammettere la possibilità e forse pure l’esigenza di continuare a studiare e sviscerare quell’incandescente monolite che è la ricca e tutt’altro che risolta filmografia di Ferrara – tanto che trattasi del secondo libro dedicato a Ferrara dall’autore; il primo, Flesh & redemption – Il cinema di Abel Ferrara (Ed. Falsopiano), risale al 2006. Tuttavia, lungi dal comportare un’implicita ammissione di inadeguatezza, al contrario, Fogliato conferma altrettanto implicitamente ciò che a conti fatti sostiene per tutto il libro, cioè a dire che ogni tentativo di disciplinare tematiche così urgenti è beffardamente destinato a fallire.

Di seguito vi riportiamo per intero la nostra intervista all’autore del libro, che molto cordialmente si è prestato a questo più che soddisfacente scambio di opinioni, vedute e quant’altro.

Intervista di Antonio Maria Abate a Fabrizio Fogliato su ABEL FERRARA. Un filmaker a passeggio tra i generi

Apprendo che lei ha già dedicato un libro ad Abel Ferrara oltre a questo. Cosa la lega, se così si può dire, a questo cineasta?

E, senza ombra di dubbio, il regista che più ho studiato e approfondito. Il legame nasce ancora durante gli anni universitari. Quella che nutro nei confronti di Abel Ferrara è una vera e propria passione, dettata, soprattutto dalla contrapposizione tra contenuto e forma presente nel suo cinema. È, uno dei pochi registi in grado di trasmettermi emozioni, indipendentemente dalla qualità dei suoi lavori. Proprio il suo essere un autore di molti film irrisolti e che utilizza il genere per affrontare tematiche altissime, è l’elemento centrale che mi lega alla sua poetica e al suo modo di fare cinema. Un cinema che è più simile alla vita di qualunque forma di finzione.

Procedendo nella lettura del suo libro emerge chiaramente l’ineludibile esigenza di soffermarsi sull’aspetto o le implicazioni di carattere «religioso» dell’intero corpus ferrariano, senza al tempo stesso farsi “limitare” da tale tematica. Ecco, alla luce del suo attento approccio a Ferrara, ritiene sia possibile in qualche modo schematizzare le fonti a cui il regista ha attinto nel corso della sua carriera? E con ciò intendo non solo in termini di contenuto, bensì anche di forma, alludendo dunque sia a fonti esterne che interne al cinema stesso (ho notato che in più passaggi del libro non lesina di offrire paragoni o richiami in generale a film appartenenti ad altri periodi, come nel caso del parallelo con Nemico Publico (1931) in relazione a King of New York, giusto per citarne uno).

La sua analisi coglie pienamente lo spirito del libro: quello di parlare di cinema attraverso il cinema. Con il trascorrere degli anni e con il mio approfondire la figura Abel Ferrara ho trovato sempre più limitante il legare il suo cinema alle tematiche cattoliche e/o religiose. È fuori discussione pensare di parlare di Abel Ferrara senza affrontare questi temi e senza analizzare il suo modo di vedere il conflitto tre Bene e Male. Detto questo però, bisogna ammettere che il suo è un cinema fatto di cinema. I suoi film nascono da fonti di ispirazione eterogenee che non fanno differenza tra cinema alto e cinema basso. Un risultato determinato dal suo essere, sin dalla giovinezza, uno spettatore onnivoro e acritico. Proprio come dice il sottotitolo del mio libro Abel Ferrara è un cineasta che attraversa i generi e li utilizza reinventandoli e destrutturandoli per affrontare le tematiche che più gli stanno a cuore. Nell’analisi di ogni film, ho pertanto voluto ricercare le fonti di ispirazione, le analogie e le similitudini con i cineasti, gli artigiani e gli autori che lo hanno preceduto. Ecco perché nel libro acquisiscono stessa dignità e importanza autori come Pasolini, Godard, Cassavetes, Bunuel e mestieranti e artigiani come Larry Cohen, William Lustig, e Bo Arne Vibenius; grandi autori del cinema del passato come Siodmak, Nicholas Ray, Fritz Lang e William Wellman e “autori” come Gerard Damiano, Bill Gunn, Meir Zarchi e George A. Romero.

Nel panorama odierno, a tutte le latitudini e longitudini, ritiene che esista un erede di Ferrara? Se sì, chi e perché?

No. Oggigiorno, nessun regista, sembra in grado di partorire un cinema così disorganico e umorale e al contempo profondo, passionale e viscerale. Il motivo, forse, risiede nel fatto che il cinema di Abel Ferrara affonda le radici nella cultura degli anni ’70, e che anche oggi, anacronisticamente, a livello formale lui cerca di riprodurre e far rivivere la stessa atmosfera e tensione di quegli anni.

Ad un certo punto, se non erro nella parte dedicata a Il nostro natale, viene riportata una delle tante interviste presenti nel suo libro, in cui Ferrara, incalzato sui leitmotiv del suo cinema, risponde meravigliato: «come si può pensare di voler trattare qualcosa di diverso?». In quanto studioso, ma penso di poter affermare anzitutto appassionato, avverte la medesima esigenza di Ferrara? Voglio dire, ad oggi è necessario che il cinema si confronti con certe tematiche oppure i tanto inflazionati «tempi» pressano per altro?

Condivido pienamente il punto di vista di Abel Ferrara e anzi, ritengo che anche i temi urgenti del mondo d’oggi non possano essere esenti dall’essere trattati secondo la dicotomia Bene-Male. Il cinema di Abel Ferrara si interroga sulla natura umana e pone il criterio di scelta come elemento centrale nell’esistenza di ogni individuo così come nella determinazione di fatti ed eventi storici. Qualunque tema quindi non può che essere raccontato secondo le dinamiche umane, così come, a mio modesto parere anche il cinema odierno non dovrebbe dare risposte ma limitarsi, come fa Abel Ferrara, a porre domande, spesso scomode, fastidiose, urticanti e poco concilianti con il pubblico.

Come avviene con ogni autore che si rispetti, anche Ferrara dispone di una propria cifra stilistica, sebbene non sembra essersi mostrato mai “troppo affezionato” ad essa (atteggiamento che a mio parere, peraltro, denota una certa intelligenza). Parliamo di dissolvenze: Ferrara in parecchi film ne “abusa”, quasi sempre per mettere in evidenza certe sfumature dell’animo umano (Blackout mi pare l’esempio più nitido e calzante), quali che siano. Ecco, la ‘poetica’ ferrariana mediante cosa passa essenzialmente, al di là delle tematiche e quindi delle storie? Come avrà senz’altro intuito, la mia domanda tende ad evocare una certa propensione stilistico-formale, ma non vorrei “limitare” la sua risposta riducendone preventivamente il raggio d’azione. Anche perché in tal senso suppongo incida parecchio non semplicemente la presenza di un direttore della fotografia anziché un altro (ed è di per sé evidente che un conto è il Bazelli di King of New York, un altro il Falivene di Mary, senza entrare troppo nel merito), ma in un certo qual modo la presenza o meno di St. John in fase di sceneggiatura.

Il cinema di Abel Ferrara, anche dal punto di vista formale, risulta fortemente contraddittorio. Il regista alterna opere rigorose, persino geometriche negli elementi di regia (King of New York, The Funeral…) ad altre “disordinate”, istintive, interamente girate macchina a mano (The Addiction, Snake Eyes, The Blackout). In questo suo modo di procedere è evidente la volontà di non definire uno stile facilmente riconoscibile e di non cadere in una regia didascalica e manierista. Il cinema di Abel Ferrara, formalmente, emerge più che attraverso l’utilizzo di elementi e codici del linguaggio cinematografico, mediante l’uso asimmetrico di elementi intrinseci persino alla chimica stessa della pellicola. Così avviene per il “nero” tra un fotogramma e l’altro, per le sovrapposizioni di più strati di inquadrature, per le panoramiche che muovono dal nero verso la luce, mentre spesso il vuoto è ripreso come un non luogo pregno di significato. Lungo la sua carriera il sodalizio con Nicholas St. John ha certamente contribuito alla scrittura di opere più compatte e organiche, decisamente differenti da quelle scritte con Christ Zois o dallo stesso Ferrara. Detto questo, però, bisogna evidenziare, come il contributo di St. John non sia quello di una sorta di “doppio registico” bensì, più propriamente, quello di una guida e un organizzatore in grado di dare continuità e coerenza ai lampi istintivi e, spesso parossistici, di Abel Ferrara (i due per lavorare non si incontrano ma lo fanno vai fax). Dal punto di vista figurativo, la distinzione tra regia geometrica e regia istintiva è dettata, anche, dall’utilizzo che il regista fa dei suoi direttori della fotografia. Le opere fotografate da Bazelli, infatti, risultano dal punto di vista cromatico e stilistico persino plastiche nella proposizione della messa in scena, mentre quelle illuminate da Ken Kelsch riproducono visivamente, e fedelmente, l’anima più passionale, selvaggia e anarchica di Abel Ferrara.

D’altronde Ferrara, laddove ha avuto la possibilità, non ha disdegnato (anzi!) di oscillare vistosamente tra due presunti “eccessi”, ossia quello documentaristico e quello teatrale. C’è forse in questo qualche analogia con Kubrick? Penso alle somiglianze stilistiche e d’illuminazione tra una delle scene iniziali di King of New York, quella nella stanza dell’hotel con King Tito, e molte delle scene in Eyes Wide Shut a casa di Bill ed Alice – d’altronde sempre a NY siamo, aspetto da non sottovalutare affatto. Ma questo non è che un esempio tra i tanti che si possono fare, e su cui certamente si sarà già soffermato.

Come ho scritto nel libro il film più kubrickiano di Ferrara è ‘R-Xmas in cui i primi venti minuti assomigliano, sia nelle scenografie sia negli interni, a quelli di Eyes Wide Shut. Le somiglianze però si fermano al fatto che in entrambi i film padre e madre, dopo aver messo la figlia a letto, escono dal mondo medio-borghese per calarsi prevalentemente in un’oscurità popolata di fantasmi (dimensione che Ferrara visualizza attraverso l’uso di dissolvenze incrociate che fanno letteralmente scomparire i personaggi. Ma se la coppia di ‘R-Xmas scende fisicamente (come mostra la sosta al parcheggio) nel sottoterra per attraversare lo Stige che separa legalità e illegalità, quella di Kubrick sale verso i vertici di una nobiltà massonica intenta all’esercizio del potere mediante il sesso. La New York di Abel Ferrara è quasi sempre notturna, percorsa dalla pioggia battente, “cancellata” dai vapori provenienti dai tombini, tracciata dalla direzione delle ombre che in essa si muovono furtive e minacciose. La sua è una città “rifatta” a sua immagine e somiglianza. Abel Ferrara, quindi, più che fare riferimento ad un palco teatrale, che pure è presente come rimando del cinema di Cassavetes, evidenzia nei suoi film la presenza del set visto e raccontato come una sorta di protesi della realtà. Sono set le strade di New York, così come la caserma di Body Snakers, così come Miami in The Blackout. Set in cui recitano persone più personaggi, luoghi in cui la vita è pulsante, scontrosa e umorale. Quella di Abel Ferrara è una messa in scena in cui nessuno recita, in cui non ci sono né buoni né cattivi ma solo esseri umani che si agitano per sopravvivere, spesso e volentieri, a loro stessi, alle loro dipendenze e al loro istinto. Il documentarismo, quello di Chelsea on the Rocks, Mulberry St., Napoli, Napoli, Napoli, viene dopo, quando non c’è più tempo, non ci sono più i soldi, non c’è più la possibilità di fare fiction. Non a caso il suo documentarismo è spiazzante, irritante e formalmente improvvisato e slabbrato, perché è solo l’alternativa alla fiction; è l’unico modo per continuare a girare… sempre e comunque.

Allora, caro dottor Fogliato, entro a gamba tesa proprio sull’ultima Sua risposta. La domanda era per l’appunto modellata su quel passaggio del libro in cui già Lei esplicita questa presunta assonanza tra i due film, che, come spiega in sede di approfondimento, a conti fatti si risolvono in maniera diversa, se non diametralmente opposta, ed entro pochissimo tempo. Ma anche qui, non saprei. È del tutto peregrina l’idea che in ‘R-Xmas (Il nostro Natale) aleggi qualcosa di onirico al risveglio dei due coniugi, fermo restando che non ci sono dubbi sul fatto che quanto avvenuto il giorno prima sia reale? Insomma, mi pare che Ferrara (bisogna capire se e quanto volontariamente) giochi un po’ su questa deriva.

Direi che l’eventualità é possibile. D’altra parte Ferrara prende ispirazione anche dal cinema noir anni’30 e ’40, in cui l’ambiguità tra realtà e sogno é conclamata. Inoltre, a partire dal momento del risveglio, l’immagine appare ben più chiaramente definita, la fotografia meno pastosa: la notte é passata, e con essa tutto il groviglio di desideri e pulsioni che si porta appresso. Anche la deriva parodistica che Ferrara impone alla descrizione di questo nucleo familiare “sui generis” sembra indirizzata sia a non (voler) sciogliere i dubbi nello spettatore sia a raccontare il momento di cambiamento definitivo a cui sta andando incontro NY.

Tuttavia è proprio quanto scrive dopo che mi aiuta a chiarire meglio il mio intento. Anche la New York di Kubrick è pura finzione, una proiezione in senso lato, sia perché ricostruita a Pinewood sia per esigenze, per così dire, letterarie (d’altronde Doppio sogno è ambientato a Vienna e Kubrick adorava talmente questo racconto che voleva “semplicemente” limitarsi ad attualizzarlo, per quanto possibile). In più, entrambi i film (tornando al mio deliberato parallelo con King of New York) sono intrisi di una certa propensione al barocco che è possibile riscontrare in più punti. Stante quindi ciò che ha già evidenziato, si può dire in un certo qual senso che le analogie tra i due ci sono nella misura in cui a Ferrara è stato “concesso” di manifestarle?

Direi di più, direi che Ferrara giochi, non meglio, ma più incisivamente di Kubrick, la carta scenografica di una NY reale che può apparire più finta (in quanto proiezione dei desideri dei coniugi) di quella “artificiale” di Eyes Wide Shut. A ben vedere, infatti, si può notare che la NY del sindaco uscente Dave Dinkins appare intrisa di stereotipi, luoghi turistici (e facilmente riconoscibili), e desideri espressi ( e non) che si risolvono in atti incompiuti. La NY di ‘R Xmas appare dunque come una città-prigione. Viene da pensare, vedendola ad una “grande meretrice” vestita, volontariamente, come un girone infernale “implicito” in cui la finzione (quella della recita iniziale, ad esempio), paradossalmente, e sinonimo di verità: l’unica possibile in un mondo artefatto e consacrato/immolato al dio denaro.

Non per nulla Lei allude anche alle ‘opportunità’ quale discriminante principale ai fini di un cinema stilisticamente più “rozzo” in certi suoi film, ma soprattutto ed inevitabilmente dei suoi ultimi documentari. Ecco, in tutto questo processo, ritiene che il ‘cuore di tenebra’ della Grande Mela abbia inciso particolarmente? Se sì, in che misura? D’altronde Ferrara (italiano) e Kubrick (ebreo) sono due newyorkesi duri e puri, e sebbene abbiano metabolizzato il luogo in cui sono cresciuti in maniera diversa mi pare evidente una certa continuità tematica che ne informa anche lo stile (termine di cui a questo punto ho abusato, me ne rendo conto).

Il cinema di Ferrara nasce e vive nella Sua NY. La città è musa ispiratrice e teatro di scena (come ben dimostra The Driller Killer). Con Ferrara NY diventa un organismo vivente in cui pulsa (come bene ha detto) un “cuore di tenebra”. Quella di Kubrick dà l’idea di una camera ardente in cui si celebrano ancestrali e funerei riti lussuriosi e pagani, una novella Sodoma in cui non ci sono né giusti nè peccatori. La NY di Ferrara invece è una metropoli-mercato (come insegna Fear City) in cui sesso e denaro hanno lo stesso peso, un nuova Gomorra in cui non c’è spazio per la virtú e la speranza (il finale di ‘R Xmas). Ferrara e Kubrick sembrano trovare un punto di incontro nella “sospensione” della soluzione biblica: «…e calò la distruzione sulle cittá…».

Abel Ferrara – Un filmaker a passeggio tra i generi, di Fabrizio Fogliato (Ed. Sovera, 2013). Prezzo: 16 euro.