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Grand Budapest Hotel: Recensione in Anteprima del film di Wes Anderson

Nella Repubblica di Zubrowka sorge un’antica struttura dal fascino immutato. È il Grand Budapest Hotel, meta prediletta di altolocate signore dai capelli biondi, gestito con solerzia da Monsieur Gustave H., il miglior concierge che un rinomato esercizio possa desiderare

pubblicato 2 Aprile 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 02:57

Quanti se ne vedono? Questa è la prima domanda che ci siamo posti subito dopo i titoli di coda (da bersi fino all’ultimo, mi raccomando) di Grand Budapest Hotel. Quanti film così belli si vedono in giro? I paragoni stanno a zero, ci siamo detti, anche perché non è un confronto diretto quello che noi cerchiamo. Si tratta di capire, semmai, quanto incida un film così elegantemente atipico. Se non sia il caso, dunque, di lasciar perdere le etichette e far sì che certo cinema non sia per lo più appannaggio di estimatori irriducibili o categorie di persone che aspettano opere come queste in religioso raccoglimento, quasi fosse un precetto l’assistervi.

Il Wes Anderson di Grand Budapest Hotel ha oramai sconfinato, andando oltre persino sé stesso. In questo suo ultimo film ci racconta la storia di questa vecchia struttura, il Grand Budapest per l’appunto, e di come il suo proprietario, Zero Moustafa, l’abbia rilevato. Partendo dal principio, ossia dalla prima volta che ha messo piede in quello sfarzoso ed efficiente esercizio sito in pizzo ad un monte nella fittizia Repubblica di Zubrowka. Ma questa non è la storia di un ricco imprenditore. Cioè, anche. È la storia, rispettivamente, di un mestiere, di un’amicizia, di un omicidio e di un quadro. In un mondo dai colori sgargianti, spenti o accessi a seconda del caso, popolato da strani personaggi che contemplano in sé stessi vizi e virtù tipici dell’animo umano.

In realtà Wes Anderson, ancora una volta, si mostra addirittura più trasversale di quello che sembra (non troppo eh); perché i suoi film, non faccia specie leggerlo, rappresentano un ottimo esempio di intrattenimento. Di classe, originale, a tratti pure un po’ sofisticato, ma una variante utile ancor prima che affascinante in un periodo in cui si fatica a scorgere la stessa capacità di coniugare l’estro personale alla fruibilità del prodotto – spesso per mancanza di coraggio più che di talento. Magari non tutti coglieranno tutto, ma ciascuno avrà modo di ridere o rimanere tiepido a suo modo. E, soprattutto, in nessun caso si potrà dare la colpa ad Anderson per non aver tentato di escogitare le soluzioni più particolari per amore di smuoverlo ‘sto benedetto spettatore. Senza abiurare al proprio cinema, anzi dilatandolo, moltiplicandolo per sé stesso con quasi matematica precisione.

Trovare un punto debole in The Grand Budapest Hotel è impresa ardua ed il peggio che si può dire è che il suo maggior pregio è anche il suo maggior difetto: è un film di Wes Anderson. Ergo tutto ciò difetto lo diventa nella misura in cui non si tolleri un cineasta che, come sempre, fagociti una trama per farci poi qualcosa che solo lui può fare; quel “qualcosa” che non può essere nelle corde di tutti, ma pazienza. Un limite a priori che dunque non riguarda l’autore bensì l’audience; perché per il resto c’è poco da imputare al film. Uno di quelli in cui regna un’armonia assoluta tra le varie componenti, legate da un indirizzo preciso che fa da collante, ossia quello impartito da Anderson. Nulla rema contro tale direzione, anzi tutto s’integra alla grande, dando vita ad un risultato che brilla e ammalia.

Tratto distintivo puntuale e grottesco di un regista che di tale amalgama fa il suo marchio di fabbrica, tra costumi, location, brani e personaggi, tutti portentosi. Non ne sbaglia una Anderson, che alla sempre eccezionale Milena Canonero raccomanda di usare colori analoghi, complementari al massimo e per il resto che si sbizzarrisca a proprio discernimento. Non c’è niente di naturalistico in questo film ma tutto è naturale alla luce di un regista che oramai ha maturato un’encomiabile padronanza del suo cinema, per cui The Grand Budapest Hotel si può considerare l’apice di un percorso che, a prescindere dalle preferenze, non ha eguali sino ad ora. Persino il penultimo Moonrise Kingdom, pienamente inserito in questo processo di maturazione, può nulla dinanzi alla maestria acquisita a fronte di quest’ultimo lavoro.

Lo si vivisezioni pure e ci si accorgerà di come ogni singolo elemento dello stile così netto di Anderson ne esca ridimensionato, chiaramente in positivo. Un film che per all’incirca 100 minuti mantiene un ritmo incalzante, alternando sinuosi alti e bassi senza alcuna apparente fatica. Per non parlare delle immancabili uscite tra il surreale e il grottesco, mentre si passa con disinvoltura da un genere all’altro: prima commedia, poi noir, poi di nuovo commedia passando stavolta per l’avventura. Un mix non catalogabile, che fa leva sulla verve marcatamente ironica del suo autore, che nell’inusuale o addirittura nell’improponibile ci sguazza – vedere l’assurda eppure credibilissima fuga dal carcere.

Ma in quest’andamento a fisarmonica, che attraversa cronologicamente cinquant’anni pur soffermandosi in larga parte sugli anni ’30, enorme rilevanza assume la girandola di personaggi che si avvicendano senza mai sovrapporsi. Ciascuno al proprio posto, riuscito lì dove sta; in un affollato scenario in cui nessuno è mai di troppo, che compaia in appena due scene o che si porti d’appresso tre quarti di film. Facendo breccia da subito, a partire dalla primissima inquadratura, che in alcuni casi è addirittura la migliore – occhio a Ralph Fiennes, che si produce in una delle migliori performance della sua carriera.

Oltre che sorprenderci, Anderson trova pure il modo di emozionarci, perché a dispetto della sua struttura ad orologeria Grand Budapest Hotel è tutt’altro che asettico. Qua e là viene sparsa qualche licenza poetica mai fine a sé stessa, né fuori luogo o, peggio, inopportuna, sempre in maniera gentile, assecondando tono e contesto. Fino a quel finale drammatico ma al tempo stesso caloroso, perché a quel punto il meccanismo ha completato il suo giro e tutto combacia senza alcun intoppo. Così, dopo essersi divertiti, dopo essersi affezionati anche al più spregevole dei personaggi (Willem “transilvano” Defoe), dopo aver appagato la vista e goduto di quel ritmo impeccabile, il cerchio viene chiuso con lo stesso disincanto iniziale. E la citazione «l’inizio della fine della fine dell’inizio è iniziato» assume un senso per noi spettatori grazie a un cosacco che sui titoli di coda balla al ritmo dell’ultimo, folgorante brano musicale; quando sei fuori dalla sala già da svariati minuti e stai ancora sorridendo.

Voto di Antonio: 9
Voto di Federico: 9
Voto di Gabriele: 9
Voto di Simona: 9

Grand Budapest Hotel (The Grand Budapest Hotel, USA, 2014) di Wes Anderson. Con Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Adrien Brody, Willem Dafoe, Jeff Goldblum, Harvey Keitel, Jude Law, Bill Murray, Edward Norton, Saoirse Ronan, Jason Schwartzman, Léa Seydoux, Tilda Swinton, Tom Wilkinson e Owen Wilson. Nelle nostre sale da giovedì 10 aprile.