Home Festival di Cannes Winter Sleep | Il regno d’inverno: Recensione in Anteprima del film di Nuri Bilge Ceylan in Concorso a Cannes 2014

Winter Sleep | Il regno d’inverno: Recensione in Anteprima del film di Nuri Bilge Ceylan in Concorso a Cannes 2014

Un Ceylan poco incline alle mezze misure getta nella mischia uno dei film più hardcore della rassegna cannense, e non solo per la durata

pubblicato 18 Maggio 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 01:36

Un film sulle distanze. Questo è stato il pensiero che ad un certo punto si è prepotentemente offerto alla mente durante la proiezione per non più staccarsene. Una di quelle considerazioni grezze, ovverosia non lavorate, che esigono un approfondimento più ampio. Eppure di parole se ne usano già tante in quest’ultimo film di Ceylan, obiettivamente verboso. I colleghi accreditati dagli USA, tra i più influenti peraltro, hanno fatto fronte comune: troppo Chekhov, troppo Shakespeare, Dostoïevski. C’è da capirli.

Winter Sleep un film che definiremmo “repellente” se solo il termine non contemplasse quel non so che di essenzialmente negativo. Ma davvero, resistere per tre ore e un quarto a certe condizioni non è da tutti. Quello di Ceylan è né più né meno un trattato comportamentale, suggeriremmo addirittura da studio accademico, se non fosse che certe competenze spettino ad altri. Il regista turco ci costringe letteralmente ad ambienti chiusi, a tratti claustrofobici, mentre il più delle volte due persone scagliano sentenze le più disparate, all’indirizzo di tutto e tutti. Scambiandosele pure, sicché capita che la medesima frecciatina venga riutilizzata da chi l’aveva subita in precedenza. Paro paro.

In un’area alquanto desolata, ma ricca di fascino, in Anatolia, un ex-attore, Aydin, conduce una vita semplice. Tuttavia agiata, dato che possiede un Hotel le cui stanze sono state suggestivamente incastonate in delle simil-caverne, più alcune abitazioni nel paese limitrofo. Vive con la giovane moglie Nihal e la sorella Necla, ospitando pochi clienti alla volta, non per scelta ma per via dell’ubicazione.

Rari dunque gli incontri, in un contesto dove tutto non può che diventare routine. Pericolosamente. Ed è su tale pericolo che specula Ceylan, mostrandocelo in tutto il suo potenziale devastante. In una delle prime scene un bambino che va ancora alle elementari tende a suo modo un’imboscata ad Aydin, rompendogli il vetro dello sportello dell’auto con una pietra. Come mai?

Ci vorranno un paio d’ore non tanto per capire il perché di quel gesto, quanto per comprenderne a fondo le motivazioni, accostandosi quanto più vicino possibile alla pesante atmosfera che si respira in quei luoghi quasi spettrali. A questo servono certi campi lunghi e lunghissimi, che in C’era una volta in Anatolia assumevano una valenza preminente. Qui sono centellinati, ma più o meno assolvono al medesimo scopo: offrirci una prospettiva differente, più generale, più “ampia”, dopo esserci così a lungo intrattenuti a pochi centimetri di distanza dai protagonisti. È attraverso questa specifica misura di regia che filtra il pensiero suggerito da Ceylan, ossia che tutti si trovino sulla medesima barca. Non importa quanto diversi siano i temperamenti, le indoli, e quanto tutto ciò renda incompatibili: da lontano la visione d’insieme ci consente di andare oltre, inquadrando la condizione in cui si trovano tutti. E questo azzera di colpo ogni tesi o ragionamento sostenuti sino a quel punto.

Winter Sleep non s’interessa d’altro. Ciò che lo muove è una passione viscerale nel volerci consegnare i limiti, le difficoltà, gli errori (sempre gli stessi), di chi, uomo, neanche in un ambiente del genere riesce a puntare all’essenziale. Aydin ripete costantemente di essere una persona semplice, facendo però pesare come un macigno tale presunta semplicità. Non ci tocca neppure chissà quale fatica interpretativa per rintracciare le peculiarità di ciascun personaggio: ci pensano loro a vomitarsi piccate analisi l’un l’altro.

Tale è però l’intelligenza di Ceylan che, attraverso uno sparuto gruppo composto da appena qualche elemento, riesce a mettere a nudo noi stessi, ciascuno di noi. E ci riesce come pochi. Lungo le numerose e talvolta volutamente tedianti conversazioni, si cerca in qualche modo di intercettare quel malessere che aleggia sin dall’inizio, ma che non viene mai esplicitamente manifestato. Né ci proveremo noi a farlo, perché questo è esattamente ciò che si prefigge di (di)mostrare Winter Sleep.

È di per sé evidente che per riuscire in un’impresa di questo tipo serva un cast che sappia davvero il fatto suo, coinvolto, pronto. Ed anche questo, anzi soprattutto questo, lo ritroviamo nel film. Haluk Bilginer per quanto ci riguarda è da premio al miglior attore, dato che il suo è il ruolo su cui sta o cade la credibilità dell’intero film. Il suo lento, contorto mutamento, che è più che altro un venire allo scoperto, atterrisce per la capacità insita nel suo Aydin di atteggiarsi come una persona in carne ed ossa, per lo più un intellettuale, uno di quelli che cade sempre in piedi.

In un film dove le sfumature sono tutto, e dove a ciascuno tocca almeno una volta, a rotazione, la parte di vittima e quello di carnefice. Parte che ciascuno, come se non bastasse, interpreta a suo modo, ogni volta rivelandoci sistematicamente qualcosa di più su quel loro animo così travagliato. Pecca un po’ o troppo di esistenzialismo, di filosofia sopra le righe, nonché di una certa predilezione alla letteratura per riuscirci? Probabilmente sì. Ma il punto è… funziona?

Il prezzo di questa merce non è propriamente a buon mercato, lo abbiamo scritto ed evidenziato, e solo un folle potrebbe affermare il contrario. Alla fine di Winter Sleep, se ci si arriva, si è provati: non ci sono scorciatoie. Per alcuni l’esperienza sarà senz’altro equivalsa a qualcosa del tipo ingollarsi le circa mille pagine de I fratelli Karamazov in un’unica soluzione a mo’ di cura Lodovico – con in più l’aggravante che ad Alex almeno la violenza piaceva. Ma non siamo così drastici.

Winter Sleep, nonostante tutto, va affrontato con disinvoltura, consapevoli che nulla di veramente buono si ottiene senza fatica. Da quanto appena rilevato si potrebbe trarre una lezione ulteriore che Ceylan ha voluto (in coscienza o meno) impartire; ma poi si rischia di farsi dare del moralista. E allora costoro stiano certi che non per loro è stata concepita tale pellicola. O meglio. Certi epigoni della via più facile ne beneficerebbero primariamente; noi, per esempio, ne abbiamo tratto enorme giovamento, a più livelli. «Il mio regno sarà piccolo, ma di questo regno almeno sono il re», sbatte in faccia Aydin ad una Nihal stremata. Basterebbe andare al cuore di questa frase per comprendere parecchie cose. E Winter Sleep è decisamente una di queste, sì.

Voto di Antonio: 8
Voto di Gabriele: 8

Winter Sleep (Kis Uykusu, Turchia, 2014) di Nuri Bilge Ceylan. Con Haluk Bilginer, Melisa Sozen, Demet Akbag, Ayberk Pekcan e Serhat Mustafa Kiliç.

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