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Rio 2096 – Una storia di amore e furia: Recensione in Anteprima

Romance, fantasy e fantascienza mescolati in un film che tenta di ricostruire, con non poca veemenza, la storia del Brasile dal sedicesimo secolo in avanti. Rio 2096 – Una storia di amore e furia è opera a suo modo coraggiosa, e a più livelli

pubblicato 30 Giugno 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 00:25

Vivere senza conoscere il passato è come camminare nell’oscurità.

Si tiene sempre d’occhio, e con una particolare insistenza, quel filone che, in ambito cinematografico, in certi casi ha potenzialmente una marcia in più. L’animazione si è infatti oramai emancipata da tempo, ed ogni considerazione contraria a questa non può che sbattere il grugno su tutta una serie di anime giapponesi, nonché casi isolati ma non meno felici provenienti da altri Paesi, come Valzer con Bashir e Persepolis, giusto per citare i più accreditati negli ultimi anni.

Citazioni utili per inquadrare questo Rio 2096 – Una storia di amore e furia, il quale si colloca tematicamente da quelle parti. Luiz Bolognesi, il regista, opera un tentativo davvero coraggioso di critica storica e storiografica mediante il ricorso all’immaginazione. C’è tanto nel suo lavoro, sebbene condensato in meno materiale rispetto a quanto sia lecito supporre. Il film si dipana infatti attraverso quattro epoche, partendo dal sedicesimo secolo per poi concludersi nel ventunesimo. Quella di Bolognesi, a suo modo, è una lezione non tanto di storia quanto del modo di approcciarsi alla storia. Non a caso l’aforisma con cui apriamo questo scritto.

Cinquecento anni fa Abeguar è un giovane appartenente a una tribù. Girovagando per la foresta scorge il volto di una donna, quella donna: Janaina. È più del mero colpo di fulmine, perché quell’occhiata è un destino che prende forma. Attaccati da un giaguaro, i due, grazie al tempestivo intervento di Abeguar riescono a fuggire. Come? Giunti su un dirupo i due, mediante un atto di pura fede, si lanciano nel vuoto, ed è lì che l’esistenza del giovane muta per sempre. Anziché piombare in terra a peso morto, Abeguar comincia a volare salvando sé stesso ed il prezioso carico, la bella Janaina. «Gli dei ti hanno scelto per combattere Anhanga», gli dirà uno degli anziani della sua tribù, i Tupinamba.

La storia prosegue, arrivano i portoghesi e per il giovane non c’è nulla da fare. Uno però il cui destino è orientato dalle divinità non può certo perire come un ordinario mortale: tutte le volte che muore, infatti, Abeguar si trasforma in un uccello, che vola di epoca in epoca in cerca della sua bella, ossia Janaina. A ragion veduta Bolognesi non si espone a riguardo, fornendo spiegazioni scomode e fuorvianti: il mistero è lì intatto, ché spiegare se le varie Janaina siano in qualche modo legate, da parentela o che so io, vanificherebbe l’incantevole effetto.

Gli altri periodi storici toccati dal film sono metà ‘800, il 1968, anno della contestazione, e il 2096, per l’appunto. Il viaggio comincia quando «Brazil era il nome di un albero», e finisce sull’immagine impietosa del Cristo Redentore imbrattato e con un arto mozzato, davanti al quale si staglia una Rio de Janeiro futuristica. La cura con cui Bolognesi e soci ricostruiscono le varie epoche è encomiabile, misura opportuna per chi si prefissa uno scopo che è quello del film: smuovere, destare dal torpore mediante la provocazione. Una provocazione violenta, e visivamente e psicologicamente, perché in fondo la condizione di Abeguar è stata sempre la stessa, ossia la schiavitù. Volendo infatti azzardare un elemento compattante l’opera, si potrebbe dire che Rio 2096 è la storia di come la schiavitù si è evoluta in Brasile nel corso dei secoli, fino a quello che per Bolognesi, licenze a parte, sembra essere il solo, drammatico epilogo ipotizzabile.

Si avverte un furore tutto sudamericano, una foga che arde nelle viscere di un film la cui rappresentazione pare quasi liberatoria. Come se gli autori dicessero: «guardate, questo è ciò che avremmo sempre voluto dire ma che per troppo tempo non abbiamo potuto». A noi, che questa storia non la conosciamo abbastanza, non resta che affidarci all’estro di Bolognesi, che nemmeno per un istante cede all’intento di denuncia duro e puro, conscio che ciò che ha dinanzi è anzitutto un prodotto per il grande schermo. Perciò spettacolare, nei limiti del possibile, visivamente accattivante e pregno d’intuizioni.

Non tutti gli episodi si collocano sulla medesima linea immaginaria di qualità, e per motivi per lo più evidenti. Il ’68 nulla toglie e nulla aggiunge, anzi, rispetto a quanto non ci abbiano già detto, epilogo non del tutto scontato in un contesto dove l’intento revisionista viene per lo più dissimulato. Poi è chiaro che il fascino della Rio de Janeiro in versione cyberpunk ha un altro appeal rispetto agli scenari che la precedono, ma non se ne può certo fare una colpa.

Ciò che conta è l’ambizione di un cineasta brasiliano che s’ingegna a raccontare la propria terra, il proprio Paese. E per farlo si serve di un mezzo nel mezzo che richiede una certa sensibilità, scommettendo per l’appunto sull’animazione. Rischio che evidentemente valeva la candela, perché spesso non c’è modo migliore per dire la verità, o anche solo propiziarla, se non ricorrendo alla fantasia.

Voto di Antonio: 7
Voto di Gabriele: 7

Rio 2096 – Una storia di amore e furia (Uma História de Amor e Fúria, Brasile, 2013) di Luiz Bolognesi. Con Selton Mello, Camila Pitanga, Rodrigo Santoro, Massimo Lodolo, Barbara De Bortoli e Dario Oppido. Nelle nostre sale da giovedì 3 luglio.