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Unbroken: recensione in anteprima del film di Angelina Jolie

Esaltarne uno per esaltarne tutti. Angelina Jolie dribbla la componente militare nel suo film di debutto, Unbroken, per concentrarsi sulla tragedia personale. Che come Hollywood c’insegna, non è mai davvero personale ma comunitaria, inerente a un popolo che molti si ostinano a piazzare come un prodotto. Il migliore

pubblicato 22 Gennaio 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 18:47

Louie Zamperini è un atleta italo-americano costretto ad arruolarsi per via dell’entrata in guerra. La guerra è la Seconda Mondiale, che vede perciò parte dei soldati americani fronteggiare i giapponesi nel Pacifico. Louie è assegnato all’aviazione, conducendo raid mirati ad indebolire le forze armate nipponiche. Finché un rovinoso incidente non lascia lui ed altri suoi due compagni in balia dell’oceano, per all’incirca un mese e mezzo; giusto il tempo che ci vuole per essere catturati dal nemico e spedito in un campo di prigionia.

Unbroken non ci gira troppo intorno già a partire dal titolo, che evoca di per sé l’eroismo di chi è duro a cedere. Nel film Louie è un ragazzo che della resistenza in senso lato ne ha fatta una ragione di vita; la sua è una parabola cristologica contrassegnata da torture di ogni tipo. Sin da ragazzino, quando viene picchiato da suoi coetanei perché, ci pare di capire, italiano e non pienamente integrato.

L’unico a credere in lui è il fratello Pete, che lo sprona ad essere migliore di ciò che è, iniziandolo alla corsa, esemplificazione perfetta di un’attività che richiede resistenza e motivazione alla lunga :«un momento di gloria vale una vita di dolore», dirà Pete ad un Louie in procinto di partire per le Olimpiadi.

Per metà del film la Jolie procede col sempre rischioso doppio binario, che alterna al tempo diegetico (la guerra) alcuni flashback inerenti al passato del protagonista, che le ha sempre prese senza però lasciarsi mai andare. Eppure, come si spiega un simile atteggiamento? Certo, dare ragione di uno spirito così temprato non è facile, ma la risposta fornita in Unbroken è che l’invito di Pete a “superarsi” fu decisivo, mentre il resto lo fece l’atletica, disciplina attraverso cui Louie ha avuto modo di forgiarsi.

Messaggio senz’altro positivo, per certi versi pure inattaccabile, se non fosse che davvero poco filtra di questo processo così complesso. La Jolie sembra voler allungare il brodo per una buona metà del film, che non a caso procede lentamente, senza alcun colpo di coda. I primi due atti riguardano la “presentazione” di Louie (chi è? da dove viene?), per poi passare ad un secondo atto in cui a farla da padrone è una distesa sconfinata d’acqua, visto che ci si concentra sull’ammaraggio e ciò che ne consegue. Poco alla volta comincia a venir fuori dove s’intende andare a parare, ossia nell’esaltazione delle doti fisiche e mentali di Louie.

Di base la storia, che è vera, non lascia senz’altro indifferenti. La capacità di sopportazione di Louie ha del soprannaturale, il che non ha certo bisogno di integrazioni nella misura in cui i fatti narrati, per quanto romanzati, corrispondano a verità. Tuttavia oggigiorno l’attingere a storie realmente accadute è come se togliesse ogni freno inibitorio a certi cineasti americani, che trasformano i loro film in un esercizio di eulogia applicata al cinema. Poco o nulla sulle motivazioni, sui “retroscena”, per così dire, di storie certamente più complesse di come ci vengono mostrate.

Il che non è un vezzo, e per rendersene conto basta andare avanti nella visione di Unbroken. Da un certo punto in avanti veniamo infatti sottoposti a questa reiterata tortura ai danni del protagonista, che viene preso di mira da un sergente giapponese e malmenato senza alcun discernimento. Umanamente empatizzare con chi è vittima di cotanta, gratuita violenza, non è certo difficile; resta da capire se fosse solo questo l’obiettivo. Ma soprattutto a che pro.

Anche perché la violenza in oggetto è sì fastidiosa, ma di certo nulla che faccia gridare allo scandalo (parlando di cinema, s’intende). Tuttavia non si coglie la prospettiva attraverso cui bisogna leggere il tutto, o più probabilmente la si coglie, solo che sembra essere debole. Trattandosi pur sempre di un film, altre sono le misure mediante cui trasportarci, ché se si tratta di mostrare immagini crude niente batte quelle di repertorio, riprese dal vivo.

La Jolie gira perciò un blockbuster con l’approccio di un documentario, che però non è tale. L’ovvio corollario è un film patinato che immiserisce la portata di una storia al cui fondo giace una forza innegabile. Assistere alle tragiche vicissitudini di Louie attraverso un ritratto così ovattato e privo di stimoli tende pericolosamente a vanificare ogni ambizione di rendere giustizia al dramma anzitutto umano.

Qual è la tendenza invece? La tendenza è quella di magnificare le doti di uno o più americani, le cui storie diventano vangeli post-moderni, atti a dimostrare di cosa sia capace non tanto il singolo, quanto un’intera comunità. Proprio nei giorni in cui tiene ancora banco la polemica su American Sniper (che è comunque su un altro livello proprio rispetto ad Unbroken), c’è ancora bisogno d’interrogarsi sul perché a fare lo stesso gioco quando il bluff è stato visto.

Nel film di Eastwood c’è quantomeno il mestiere di un regista che, di dritto o di rovescio, ha comunque alzato nuovamente la sua personale asticella, girando il suo film migliore da qualche anno a questa parte. Ma Eastwood è un apostolo del machismo americano, uno che sa come muoversi quando si tratta di esaltare la virilità dei suoi personaggi. La Jolie dimostra di non essersi nemmeno avvicinata a penetrare quello che è pur sempre un mistero; il mistero di un uomo dallo spirito indomabile, che fa cose oggettivamente extra-ordinarie.

Da qui gli estemporanei scivoloni, momenti grotteschi che interrompono bruscamente il processo di ingresso nel corso della storia. Così come la generale apatia di un film che non riesce a dare non dico ragione di tale percorso, ma del perché lo si è voluto trasporre al cinema; al di là del solito, già menzionato intento eulogico, ovvero mirato ad esaltare le doti di uno che assurge a metonimia rispetto alle doti di un intero popolo.

Che poi non si può certo dire che Unbroken si faccia in quattro per porre in rilievo tematiche “militaresche”, che invece sarebbe stato interessante conoscere, proprio nella loro disfunzionalità all’interno di un campo di prigionia, dove la paura ed il trattamento bestiale rimettono tutto in discussione. Ma è un livello che va al di là delle premesse del film, che è ciò che abbiamo in qualche modo descritto poco sopra: portare ai cieli uno per portarci tutti.

Non basta perciò la confezione impeccabile (la fotografia è di un certo Roger Deakins), che anzi finisce col remare contro la resa generale, in cui le immagini che colpiscono maggiormente sono quelle in cui compare il vero Louie Zamperini da vecchio, nell’immancabile reportage di repertorio finale. Nonostante sia innegabile la presa e il fascino di certi scorci, di certe frasi ricorrenti in un modo o nell’altro («Se resisti puoi sempre farcela»), così come il messaggio con cui si tirano le fila. Tuttavia hai l’impressione di comprendere di più di questa storia assurda attraverso quei pochi frammenti conclusivi che grazie ad un intero film.

Voto di Antonio: 5
Voto di Federico: 5
Voto di Gabriele: 4

Unbroken (USA, 2014) di Angelina Jolie. Con Jack O’Connell, Domhnall Gleeson, Garrett Hedlund, Finn Wittrock, Jai Courtney, Maddalena Ischiale, Vincenzo Amato, John Magaro, Luke Treadaway, Ross Anderson, Alex Russell, John D’Leo, Spencer Lofranco, Morgan Griffin, Shinji Ikefuji, Takamasa Ishihara, Ryan Ahern, C.J. Valleroy, Michael Whalley e Yutaka Izumihara. Nelle nostre sale da giovedì 29 gennaio.