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Berlino 2017: Logan – The Wolverine: recensione in anteprima del film di James Mangold

Western distopico che non rinuncia ai sentimenti. Logan è il mainstream che piace, quello fatto con criterio. Logan è Wolverine

pubblicato 19 Febbraio 2017 aggiornato 30 Luglio 2020 01:49

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2029. È un Logan invecchiato, ombra pallida di colui che fu Wolverine, quel personaggio che oramai vive solo nei sogni dei ragazzini che ne leggono le gesta a fumetti. In questo futuro immaginato pochi sono i riferimenti ma la certezza è una: i mutanti sono scomparsi. O almeno, così pare. Logan e il Professor X vivono rintanati nel deserto, quest’ultimo addirittura dentro una sorta di cisterna, assumendo pillole per tenerne a bada i poteri. Hugh Jackman incarna la rassegnazione, il dolore di chi sa che non c’è più posto per lui, di chi è sopravvissuto a tutto e tutti tra coloro a cui teneva di più; una pesantezza che si avverte chiaramente dalle movenze del corpo, appesantito come non mai, Logan oramai non è che una carcassa.

Tutto il film di James Mangold rappresenta una staffetta, quel passaggio di testimone che conduce da un’epoca a un’altra, perché l’epilogo di una storia in fin dei conti segna sempre l’inizio di un’altra. La sua esistenza dedita per lo più a trascinarsi è però sul punto di cambiare: Gabriela (Elizabeth Rodriguez) è un’infermiera che cerca in tutti i modi di convincere Logan a farsi carico della piccola Laura, supplicandolo di condurla fino in Nord Dakota. Malgrado di lavoro faccia l’autista, Wolverine non intende nemmeno prendere in considerazione l’idea, ma quando gli viene offerta una considerevole somma ci ripensa: con quei soldi lui e il professore potrebbero finalmente realizzare il loro sogno, ossia comprarsi una barca e vivere sull’oceano.

Di lì a poco si capisce che Laura non è una ragazzina come la stragrande maggioranza delle sue coetanee: in un centro di sperimentazione della Transigen vengono infatti allevati dei ragazzini mutanti, con l’intenzione di “addomesticarli”, ossia farli diventare delle macchine da guerra al servizio del Paese o chi per lui. Il percorso di Logan incrocia quello di questa nuova generazione di X-Men, generazione che non «non ha idea di come fosse il mondo un tempo» e che dovrà farsi strada da sé, senza maestri o tutori. Ma di certo c’è qualcosa che un attempato Wolverine può ancora fare, dev’esserci un modo in cui il suo contributo può e per certi versi “deve” rivelarsi determinante, come se in realtà quella fosse l’unica la ragione per cui è ancora in circolazione, il senso che aveva smarrito in questi anni di esilio forzato, non dal mondo ma da sé stesso.

Mangold non ci gira tanto intorno, prendendo alla lettera quanto Cicerone secoli or sono andava sostenendo, ossia che «non esiste peggior nemico di sé stessi»; infatti Logan è chiamato a questa lotta impari, prima con quella parte di sé che si sta lasciando morire, come ravvisa la piccola Laura ad un certo punto, poi con una sua copia/clone, più giovane, più in forze, ma sostanzialmente una scatola vuota. La parabola di uno dei personaggi più iconici tra i comics non poteva che essere quintessenzialmente americana, una lotta in cui ad avere la meglio non può che essere quello dotato della volontà più ferrea. Mangold riesce a convogliare certe istanze sapendo di doversi al tempo stesso rivolgere ad un pubblico molto ampio, perciò questo dimenarsi dello spirito si manifesta in modo chiaro, accessibile, tanto che molto passa proprio dal corpo di Logan e da come va logorandosi sotto i nostri occhi.

Chi è l’eroe? Per anni abbiamo pensato si trattasse di colui che salva il mondo, o almeno una cospicua parte di esso, mentre altri, su altri fronti, ci hanno detto che l’eroe fosse l’uomo comune, quello che porta la pagnotta a casa e retorica cantando. Logan sta a metà strada tra queste due possibili risposte, perché il suo di mondo oramai è andato perduto, non può più salvarlo. Cosa fare perciò quando per noi è troppo tardi? Quando il tempo ci è scivolato tra le dita e, come l’acqua di un ruscello, è andata per sempre? Trasmettere. Il concetto di tradizione sta tutto lì: nel trasmettere (dal latino tradere) tutto ciò che abbiamo acquisito, o almeno la porzione migliore, cosicché siano altri, quelli che vengono dopo di noi, a proseguire ciò che eravamo chiamati a compiere. Non per niente il concetto di famiglia è centrale in Logan, verrebbe da dire strutturale, portante: una famiglia è tutto ciò che è mancato a Wolverine, quell’unico elemento capace di “normalizzare” persino un “anormale” come lui, come si vede in una scena che, nell’immaginario collettivo, rientra fra le due/tre americane per eccellenza: una famiglia dei sobborghi seduta a tavola che discute e sorride mentre mangia il più classico dei polpettoni con purè e fagiolino, emblema degli Stati Uniti che nel dopoguerra ha vissuto e promosso come nessun altro il proprio benessere economico, sinonimo, ça va sans dire, di felicità.

Il classicismo di Mangold però non è solo culturale ma più specificatamente cinematografico, con quegli echi à la Peckinpah che attraversano non solo le scene d’azione, truculente, incattivite, ma in generale il tono del film, a conti fatti un western distopico duro ma tutt’altro che avaro di sentimenti. Molto abile Mangold a farci vivere la prima parte del film completamente dalla parte dei mutanti senza praticamente mostrare alcunché: fino alla prima scena d’azione pura, infatti, viviamo il mondo in cui si muove Logan come una gabbia a cielo aperto, una strana sensazione che viene fatta filtrare attraverso quei canali che più attengono al cinema, ovvero l’atmosfera, i gesti, il non detto e finanche il non visto. Nella seconda parte, quando Logan deve necessariamente spostarsi su un altro livello, ecco, qualcosa in questi termini viene meno, sebbene tutto sia funzionale al rapporto tra lui e Laura, a questo punto centrale e perciò in primo piano.

Logan è un’anomalia, inaspettata, a suo modo meravigliosa, che “sconfessa” il cinecomic proprio perché oramai un genere a sé stante: se non lo fosse, un’operazione di questo tipo non attecchirebbe con uguale intensità. È come se tale fenomeno avesse abbandonato la chiassosa e spericolata adolescenza per avviarsi all’età adulta, non tanto per i temi trattati ma perché consapevole di dover dare ascolto ai «grandi», cioè a coloro che l’hanno preceduto. Un processo che si specchia nel rapporto tra Logan e Xavier, finalmente deboli, esposti come non mai, in altre parole umani. Il primo che si occupa del secondo amorevolmente, quantunque si becchino, mostrino insofferenza l’uno per l’altro, si producano in siparietti ora teneri ora comici. C’è qui l’ultima lezione che Logan deve apprendere, nonché l’unica che dovrà trasferire: l’arte di sacrificarsi. Non dare la propria vita ma sé stesso, che è cosa ben diversa. Adesso si può (ri)cominciare.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]

Logan (USA, 2017) di James Mangold. Con Hugh Jackman, Patrick Stewart, Richard E. Grant, Boyd Holbrook, Stephen Merchant, Dafne Keen, Eriq La Salle, Elizabeth Rodriguez, Doris Morgado, Mark Ashworth, Julia Holt, Elise Neal, Dave Davis, Juan Gaspard e Lauren Gros. Nelle nostre sale da mercoledì 1 marzo 2017.

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