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Cannes 2018, Dogman: recensione del film di Matteo Garrone

Festival di Cannes 2018: reinventandosi nuovamente, o per lo meno subordinando uno stile quale che sia al racconto, Garrone ci sottopone una storia dalla violenza inaudita, forse incompiuta ma nondimeno ci assale, e noi disposti a prestarci

pubblicato 17 Maggio 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 20:14

«Amore, come stai?». Marcello (Marcello Fonte, altro volto indovinato da Garrone), sguardo buono, volto vissuto, saluta così tutti i cani che vede o di cui si prende cura. Fa il canaro, come si dice da quelle parti… ma quali parti? Matteo Garrone non lo dice, non serve. La sua è una fiaba, perciò cupa, oscura, per quanto con i piedi ben piantati a terra. La prima mezz’ora o giù di lì di Dogman è qualcosa di strepitoso: il lavoro sull’ambientazione, sulle relazioni, sulla presentazione di ogni singolo personaggio, a partire appunto dal protagonista. Ed è un Garrone se vogliamo diverso, che si sa mettere in discussione, senza rifare sé stesso, piluccando semmai altrove. Macchina a mano ridotta all’inverosimile, il regista romano adotta, almeno in parte, un più spiccato rigore formale, in fondo tornando alle origini anziché allontanandosene, specie laddove compone quadri.

Dove sta la fiaba? Sul villaggio felice, sporco, abbandonato ma felice, aleggia una presenza che di tanto in tanto interrompe bruscamente il quieto vivere, abbattendosi su di esso con una furia disarmante. È Simone (Edoardo Pesce), ex-pugile che non conosce altro modo di relazionarsi al mondo che ha attorno se non attraverso la violenza, estemporanea, tremenda. Basta molto meno che contrariarlo per far scattare in lui la molla, e a quel punto può accadere di tutto. Marcello, però, lui no, gli è amico; una strana amicizia la loro, che vede il piccolo canaro cercare maldestramente di contenere tutta quella furia incondizionata, per lo più somministrandogli cocaina. Tocca a lui rimediare, sempre, assumersi quasi la colpa delle brutali intemperanze di Simone, come quando, dopo una rapina, Marcello scopre che uno dei ladri ha chiuso il cagnolo dei proprietari dentro dentro il freezer, ed allora decide di tornare sul luogo del misfatto e capire se è ancora in tempo per salvarlo.

Non sono pecore quelli che operano nello stesso quartiere di Marcello nel senso di pure; l’accostamento bovino indica il carattere di questa gente, che soffre maledettamente le incursioni del lupo ma non reagisce. Saprebbero pure cosa fare ma non ne hanno il coraggio, appunto come le proverbiali pecore. Ed allora non resta che accettare l’obolo da pagare, gravoso o meno che sia, proprio per paura che la ribellione possa comportare conseguenze ben più pesanti. Nel frattempo il rapporto, già malato, tra Marcello e Simone continua ad incancrenirsi, ed è un bel problema. Qualcosa bisogna pur fare. Come in tutte le fiabe, tuttavia, i protagonisti non agiscono mai davvero di propria iniziativa, bensì costretti, messi spalle al muro dagli eventi; ed allora devono affrontare ora la strega, ora il lupo, ora l’orco e via discorrendo.

Garrone gioca molto sugli opposti: l’essere innocuo di Marcello accostato alla follia cieca di Simone; la dolcezza dell’amore per una figlia alla desolazione dei luoghi, il loro tanfo. Dicotomie che declinate al thriller funzionano quasi sempre, in quanto funzionali al conflitto, che qui si avverte eccome. Simone sembra quasi di conoscerlo, e quando senti quel rombo di motore della sua superbike è come se il rantolo del mostro ne annunciasse l’imminente comparsa. Garrone prepara la reazione, quella che dovrà avvenire per forza di cose, anche se non sappiamo come, pur immaginandolo. Una svolta che non è liberatoria, anzi, “quel finale” che tutti ci aspetteremmo ci viene risolutamente negato, ed è un punto a sfavore. Non perché si vuole essere assecondati, ci mancherebbe, ma perché sul finire si ha questa appiccicosa impressione che, dopo tanto costruire, anticipare, quell’epilogo si riveli per certi versi “troppo poco”. Nondimeno si tende a rispettarlo, in quanto espressione di una visione, un’etica dello sguardo coerenti, forse addirittura “giuste”.

Eppure l’idea di compattezza che trasmette Dogman rappresenta quasi un antidoto alla dispersione, essendo tra l’altro questo il suo film più piccolino, più L’imbalsamatore che Gomorra, per intenderci. Non vi è incongruenza, poi, rispetto a quanto sostenuto circa la differenza tra la prima parte e il resto; non confondiamo la struttura con le sensazioni. Eppure sì, i film sono anche questo, e l’impressione che l’opera che si dimeni dentro Dogman sia addirittura più grande di quello che già è, resta vivida come poche. Venendo a patti con tutto ciò, nondimeno, l’idea non ne esce compromessa. Certo è però che dal miglior regista italiano in attività è lecito pretendere l’eccellenza e segnalare quando, per un motivo o per un altro, non è stata conseguita pur essendoci i presupposti per riuscirci.

Ciò detto, l’ultimo lavoro di Garrone è un film che ti bracca, t’assale, ma da cui non riesci a staccarti. Un processo non riuscito in misura meno evidente che in Von Trier, quantunque analogo sia il trattamento nei riguardi dello spettatore, sottoposto ad una pressione psicologica, prima ancora che visiva, notevole. Anche qui ci si vorrebbe nascondere in un angolo continuando però a spiare per capire come finirà questa brutta storia; un minuto dopo si vorrebbe intervenire per porre fine alla sofferenza, non solo la nostra ma anche quella dei diretti interessati. Una forma d’interazione che, va detto, non molti cineasti riescono a garantire.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”8.5″ layout=”left”]

Dogman (Italia, 2018) di Matteo Garrone. Con Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi, Francesco Acquaroli, Alida Baldari Calabria e Gianluca Gobbi. Nelle nostre sale da giovedì 17 maggio 2018. In Concorso.

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