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Venezia 2018, una panoramica sulla realtà virtuale di Venice VR

Festival di Venezia 2018: una finestra sul futuro che la Mostra ripropone per il secondo anno consecutivo, vincendo una scommessa impegnativa ma stimolante

pubblicato 30 Agosto 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 17:04

Concediamoci una pausa preventiva, prima ancora della quarantina di film o giù di lì che, se Dio vuole, raccoglieremo entro la fine di questa Mostra. È interessante che il Festival più vecchio al mondo, nonché a tutt’oggi tra i più blasonati, sia anche quello che, unico, anticipi “qualcosa”. Non manca chi si sta industriando a sostituire quel “qualcosa” con un’indicazione più chiara, inequivocabile, che aiuti a comprendere meglio. Tuttavia ci pare un azzardo, di quelli magari affascinanti ma su cui si può per lo più scommettere, salvo non vedere davvero oltre.

La Virtual Reality, chi scrive lo sostiene da tempi non sospetti, è qui per rimanere. Non so se il direttore Barbera la pensi allo stesso modo o meno; quel che è certo è che anche lui ed i suoi collaboratori hanno scorto qualcosa in questa nuovo medium, che, lo ripeto, sta sempre più dimostrando di avere una propria dignità, legato a buona parte di ciò che lo ha preceduto, ma abbastanza solido, già “grande”, per restare autonomo. La rassegna interna alla Mostra che si tiene presso l’Isola del Lazzaretto Vecchio anche quest’anno non fa che confermarlo.

A colpire non è soltanto la mole, di per sé imponente, ma anche la freschezza di certi lavori, che in questa fase è certamente auspicabile ma non è mica detto. Le sfide a cui sviluppatori, creatori e produttori si trovano davanti è oltremodo stimolante: tutto è nuovo, tutto è diverso, pochi i ganci con quanto già è stato fatto, si tratta di ripensare il nostro rapporto con l’ambiente, reale o immaginario, sperimentando soluzioni che consentano di fare anche solo un piccolissimo passo verso ciò che sarà. Ecco perché chi si ostina a percepire questo settore come una sorta di estensione di altre preesistenti, sia esso il cinema o i videogiochi, è tendenzialmente vittima di un equivoco. Innocente, perciò comprensibile, ma pur sempre un equivoco.

Prendete Umami, per esempio. Una delle installazioni più ambiziose. Peccato non averla potuta vivere a regime, ossia così come i creatori, con cui abbiamo scambiato quattro chiacchiere, l’hanno concepita. In poche parole si tratta di entrare in questa stanza che è una sala da pranzo e, attraverso vari piatti, cavalcando il cosiddetto fenomeno della Madeleine di Proust, dobbiamo ricostruire un omicidio commesso dal personaggio che interpretiamo. L’aspetto che più incuriosisce è che l’intenzione è di far assaggiare pietanze reali, riprodotte fedelmente in computer grafica, integrando insomma quella parte che manca per definizione alla realtà virtuale così come la conosciamo adesso, ossia la materialità di ambiente, cose, persone etc. Quella che al momento ci viene mostrata è un’idea, una serie d’intuizioni, in larga parte felici, corroboranti, non per niente l’esperienza prevede un attore che interpreta una guardia, il cui compito è quello di mostrarti le conseguenze del tuo crimine ed accompagnarti in questa sala interrogatori/sala da pranzo per ricostruire l’accaduto. Per ora si ha accesso ad un solo capitolo, sebbene l’esperienza, ci conferma i creatori, è ben più lunga e complessa. Già così, ad ogni modo, si percepisce il potenziale oltre che permetterci di subodorare lo step successivo.

Non meno lanciato verso questo provvisorio traguardo è Wu Zhu Zhi Cheng VR, storia ambientata in 2048 ultratecnologico, alla stregua di quanto visto, concedeteci la menzione, in uno dei titoli videoludici più attesi del biennio 2019/20, ossia Cyberpunk 2077. Qui non c’è granché bisogno di essere messi a parte di chissà quale premessa narrativa. L’azione si snoda attraverso due inseguimenti a bordo di una moto volante guidata da Nana, un androide che si offre di aiutarci a scappare dal villain di turno. Noi stiamo dietro, mentre lei guida come una forsennata prima in aria, tra i grattacieli, dopo per le strade di questa metropoli futuristica. La particolarità? Oltre all’immancabile visore, l’esperienza prevede che noi ci si sieda su una poltrona concepita apposta per simulare i movimenti della moto, dunque, elemento di gran lunga più significativo, le sensazioni, sperimentate a bordo di un mezzo che si divincola in maniera così sconsiderata. Anche in questo caso, il passo in avanti, quantunque non si possa parlare d’innovazione in senso stretto, sta nell’insistere su questa dinamica del non limitarsi a ciò che vediamo ma unire l’esperienza visiva a quella del nostro corpo, per cui chiamando in causa anche altri sensi in concerto con la vista (occhio alle vertigini in picchiata, una delle attività più intense che ho sperimentato nella mia seppur breve e saltuaria “carriera” da utente di realtà virtuale).

Su questa falsa riga anche Eclipse. Ci troviamo all’interno di una nave spaziale dalla quale dobbiamo fuggire; per riuscirci dobbiamo visitare diverse aree dell’astronave, con l’intento ultimo di poter sganciare i pod a bordo dei quali allontanarci. Vi è in particolare il ricordo ad una piccola piattaforma posta a terra, la quale, vibrando, riproduce gli effetti di un ascensore, lo stesso che dobbiamo prendere per muoverci da un piano all’altro. Altro aspetto interessante sta nella componente cooperativa: bisogna collaborare, due in una stanza e due in un’altra, altrimenti, spietatamente, si muore. Comunicando attraverso apposite ricetrasmittenti, virtuali, si tratta di un’esperienza basata su enigmi, che vanno risolti insieme.

Rivolgendoci ad un prodotto più in linea con la proposta, Kobold rappresenta un’altra menzione da fare. Siamo dalle parti dell’horror interattivo, sulla falsa riga di un Resident Evil 7 ma meno aggressivo, per così dire, sebbene non per questo meno coinvolgente, salvo chiaramente il fatto di durare poco. È la storia di questa casa abbandonata fuori Berlino, presso la quale un investigatore si reca per scoprire cosa accadde negli anni ’70, l’ultima volta che fu abitata. L’idea assume consistenza alla luce della sua struttura, che consta non soltanto della parte VR, bensì anche di un cortometraggio introduttivo che funge da prologo, funzionale proprio all’esperienza in realtà virtuale, se non altro per poterne cogliere a pieno storia e personaggi.

Sul solco della classicità, malgrado il concetto di “classico” possa apparire un attimo forzato nell’ambito di una tecnologia che solo di recente si sta davvero sviluppando, abbiamo L’isola dei morti, in buona sostanza la trasposizione del dipinto omonimo di Arnold Böcklin, tavola del 1883 che viene qui esplorata non tanto in termini di spazio quanto concettualmente, secondo la chiave di lettura delle civiltà che si avvicendano, o per meglio dire, si sono avvicendato nel corso della storia dell’uomo. A conferma di quest’ambizione sinestetica, il tutto è accompagnato da un brano che Rachmaninov compose proprio imbeccato da questo quadro. Opera elegante, contemplativa, nella sua semplicità lineare riesce quasi ad essere tra le cose più significative.

Analoga l’operazione che invece coinvolge Tales of Wedding Rings VR, anch’essa trasposizione di un’opera preesistente, stavolta però riconducibile ad un manga. Qua in fin dei conti non c’è nemmeno granché da spiegare: è come se le tavole prendessero vita, mantenendo il bianco e nero tipico dei fumetti, in alcuni casi espandendo a 360 gradi l’ambientazione, resto comunque per lo più fedele al format originale simil-storyboard. Un altro di quei lavori per cui viene da pensare che la VR possa dare tanto, fino al punto di conferire proprio un altro spessore.

VR I invece è forse l’installazione più pura tra quelle a cui abbiamo avuto accesso. Passiva, oppure, tutt’al contrario, attiva nella misura in cui ci si può muovere liberamente sebbene non si sia costretti né facendolo si raggiunga alcuno scopo. Muniti di uno zaino molto simile a quello degli Acchiappafantasmi, sensori al polso e alle caviglie, ciascuno degli utenti impersona un avatar che può fare un po’ ciò che vuole all’interno di uno spazio ristretto, mentre attorno a loro dei giganti prima ed altri personaggi virtuali dopo improvvisano una sorta di balletto di danza contemporanea. La peculiarità, ci pare, sta nel contemplare la presenza fisica di più persone all’interno del medesimo ambiente, per cui ci si può scontrare, battere cinque, stringersi la mano, farsi lo sgambetto, picchiarsi e via discorrendo. Al di là dell’ironia per certi potenziali usi impropri, sono proprio le opportunità a rendere curiosa un’esperienza che sembra non aggiungere granché mentre invece a suo modo offre un contributo su cui vale la pena ragionare.

Spheres, che tra l’altro è prodotto da Darren Aronofsky, si atteggia un po’ ad appendice di The Tree of Life nel suo mostrare la formazione del nostro sistema solare, così come la disposizione dei nove pianeti, lasciandoci interagire con tutto questo, quantunque pure in questo caso l’interazione sia fine a sé stessa, muovendosi più nell’ambito della tech demo che altro. Indubbio il valore didattico, vocazione implicita in questo mezzo, attraverso cui è concepibile far passare l’insegnamento delle materie più svariate, non in toto, chiaro, ma le possibilità ci sono eccome.

Insomma, non è tutto, ma neanche poco. Anche a questo giro, come l’anno scorso, ci siamo accostati alle varie opere in VR col medesimo senso di meraviglia, sorpresa, solo in parte spiegabile in virtù di quell’effetto «wow» che da solo può reggere fino a un certo punto, di certo non oltre l’iniziale entusiasmo per qualcosa di atipico, la cui esposizione però tende a far rientrare a prescindere dal valore di ciò a cui appunto ci si espone. Come evidenziamo in apertura, la realtà virtuale è qui per restare; attraverso di essa chi vi si sta cimentando ponendosi concretamente il problema c’è l’ambizione di realizzare qualcosa che ne evidenzi le peculiarità, svincolandolo da un’errata ancorché diffusa percezione, che ne limita il raggio d’azione e applicazione all’inverosimile.

E ci sentiamo, l’avrò già scritto da qualche parte, più di una volta, come coloro che assistettero ai primi filmati rudimentali di inizio ‘900, stupiti, in non pochi casi carichi di speranze, consapevolmente o meno, rispetto ad un oggetto che non riuscivano ancora ad abbracciare del tutto, semplicemente perché non si sapeva ancora che forma avesse. Ancora nel 2018 la VR è affare di esploratori, siano essi utenti o creatori, un campo di sperimentazione continua rispetto all’interno del quale si naviga a vista, con le nostre bussole per lo più inutilizzabili, perché qui siamo su un pianeta diverso, con leggi diverse. Vorremmo trasmettervi di più, compresa, l’ammettiamo, quel filo di inquietudine per ciò che il mondo, o per meglio dire l’uomo, potrebbe diventare a seguito di una diffusione sempre più capillare di questa tecnologia, destinata, massì, scommettiamo pure noi, a far suo il secolo XXI, alla stregua grossomodo di come il Cinema ha fatto suo il XX. Vivere questa fase embrionale è già (stato) stupendo.