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Venezia 2018: Suspiria, la recensione del film di Luca Guadagnino

41 anni dopo l’uscita in sala del capolavoro originale di Dario Argento, Suspiria è tornato di nuovo tra noi grazie al remake di Luca Guadagnino.

pubblicato 1 Settembre 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 17:00

Incantata la critica di mezzo mondo con Chiamami col tuo Nome, Luca Guadagnino è tornato alla Mostra del Cinema di Venezia 3 anni dopo i fischi ricevuti con A Bigger Splash per presentare in Concorso il suo film più atteso e al tempo stesso temuto: Suspiria, remake dell’indiscusso capolavoro di Dario Argento, uscito nel 1977.

Un rifacimento preventivamente criticato dallo stesso maestro dell’horror italico, abbondantemente riletto
dal regista di Io sono l’Amore e dallo sceneggiatore americano David Kajganich, già al lavoro con Guadagnino in A Bigger Splash.

Ambientato nella Berlino del 1977, il nuovo Suspiria firmato Amazon è suddiviso in sei capitoli e in un epilogo. Celebre la storia, che vede un’ambiziosa e giovane ballerina (Dakota Johnson) approdare in una scuola di danza diretta dall’acclamata Madame Blanc (Tilda Swinton), potente e temibile strega.

Un tarlo. 35 anni dopo averlo visto per la prima volta, appena 12enne, Luca Guadagnino è riuscito a realizzare il ‘suo’ Suspiria, ossessione horror a lungo cullata e ora diventata realtà, dopo anni di rumor, critiche e aspettative. Per contestualizzare ulteriormente la pellicola, il regista e Kajganich si sono a lungo soffermati sul contesto politico dell’epoca, agitato dalle rivoluzioni femminili-femministe e dal dirottamento di un Boeing della Lufthansa da parte di un commando palestinese. Erano gli anni della banda Baader-Meinhof, a cui Guadagnino cede gratuitamente spazio e tempo con continui lanci radio, articoli di giornali, spezzoni televisivi. Una sottotrama tutt’altro che secondaria, perché direttamente legata ad una delle ballerine protagoniste, da intrecciare al passato di Dakota Johnson (Susie Bannion) e alla storia del Dr. Jozef Klemperer, interpretato dall’inesistente Lutz Ebersdorf. E’ infatti Tilda Swinton, straordinaria trasformista, ad indossarne abiti e invecchiato volto, doppiando la sua partecipazione al film in quanto co-protagonista nei panni della direttrice Blanc.

Che Guadagnino dovesse prendere le ‘distanze’ dal titolo originale di Dario Argento era chiaro, nonché cosa buona e giusta, ma il regista ha probabilmente esagerato, realizzando un film che di Suspiria ha poco o nulla, se non il soggetto di fondo e il titolo. Confusonario nell’evoluzione della trama, tra sottotesto politico e rimandi ai campi di concentramento nazisti, questo remake dimentica il film del 1977 prendendo una strada tutta sua, onestamente incapace di suscitare ansia, inquietudine, spavento.

Cancellata la magistrale fotografia di Luciano Tovoli, con quel rosso scarlatto, il verde smeraldo e il giallo ocra a salutare il Technicolor, così come l’iconica e ossessiva colonna sonora dei Goblin, Guadagnino pennella oscurità e colori cupi con il direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom, per poi sfruttare limitatamente la prima storica colonna sonora di Thom Yorke dei Radiohead, di fatto quasi assente, se non nel finale.

Nel mezzo tanta danza contemporanea, che omaggia chiaramente Pina Bausch (il coreografo del film è suo figlio), e un rapporto saffico mai esplicitato tra le sue protagoniste. Inutilmente lungo 150 minuti, Suspiria fatica paurosamente a carburare, perdendosi tra personaggi solo apparentemente secondari (il Dr. Jozef Klemperer) e fugaci visioni orrorifiche che attingono a piene mani dall’arte contemporanea. Omaggiato Rainer Werner Fassbinder e le sue donne tormentate ma mai vittime, Guadagnino esce finalmente dal lungo torpore iniziale grazie ad una spaventosa e riuscita scena di coppia in cui magia nera e danza si fondono, spezzando letteralmente arti e sogni di fuga. Di fatto l’unica vera scena che potrebbe rimanere nell’immaginario cinematografico collettivo, fino all’arrivo di quel sabba demoniaco finale che è un coreografato trionfo di sangue.

Non si fosse chiamato Suspiria, ma in qualsiasi altro modo, il film di Guadagnino avrebbe probabilmente meritato altre ‘letture’, ma è chiaramente impossibile evadere dal confronto con il capolavoro di Argento, preso, disossato e riempito a proprio piacimento. Capitolo dopo capitolo il nuovo Suspiria stagna, anche perché Dakota Johnson è tanto bella e magra quanto inespressiva, mentre Tilda Swinton è impeccabile sia in abiti femminili che maschili.

Autentico manifesto femminista, il film lavora benissimo sui volti delle altre maestre/streghe, mentre il regista si sofferma sul male assoluto, esoterico o storicamente reale che sia. Registicamente studiato nei minimi dettagli, tra particolari solo apparentemente inutili e un montaggio serrato (di Walter Fasano, visto all’opera con La terza madre), Suspiria paga la ‘moda’ di quest’ultima Mostra veneziana, contraddistinta da film sempre troppo drammaticamente lunghi, figli di un tempo in cui la serialità televisiva ha ampliato la narrazione. Il regista osa e si compiace, come al suo solito, con la consapevolezza di creare sconcerto e opinioni discordanti, proseguendo spedito con la propria idea di Cinema, nel caso di Suspiria criptica, fascinosa e discutibile. Applausi e fischi al termine della proiezione stampa veneziana, in attesa del responso di quella giuria capitanata da Guillermo Del Toro che potrebbe persino assegnargli un premio. Guadagnino è tornato al Lido.

[rating title=”Voto di Federico” value=”5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]

Suspiria (Horror, remake, 2018) di Luca Guadagnino; con Dakota Johnson, Tilda Swinton, Mia Goth, Chloë Grace Moretz