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Venezia 2018: Napszállta (Sunset): recensione del film di László Nemes

Festival di Venezia 2018: Sunset conferma il talento puro di László Nemes, che non rinuncia all’approccio adottato con la sua opera prima, trasposto a un contesto da fin de siècle nella Budapest di inizio XX secolo

pubblicato 3 Settembre 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 16:57

«Che ci fai qui? Devi andartene». Se lo sente dire continuamente Irisz Leiter. Sunset si apre su di lei in primo pianop, sguardo trasognato, mentre prova una serie di cappelli; senonché lei non è una normale cliente. Quella cappelleria in piena Budapest porta il suo cognome, apparteneva alla sua famiglia prima che qualcosa accadesse, non si sa bene cosa. Lei è partita da Trieste apposta, dove faceva la modellista di cappelli, per essere assunta in quella che un tempo fu la sua casa. Il nuovo proprietario, tale Oszkár Brill, è spiazzato: non la vuole ed infatti tenta di metterla sul primo treno per l’Italia. Non ci riuscirà ed è così che l’incubo di Irisz ha davvero inizio.

Per chi si stesse chiedendo se László Nemes abbia o meno rinunciato a quel suo stile così particolare mostrato ne Il figlio di Saul, chiariamo che no, non è così. E chi, a questo punto, avesse dubbi in merito al fatto che quel modo lì, quelle soluzioni siano applicabili anche nell’ambito di un contesto così diverso (lì erano i campi di concentramento, qui l’Ungheria di inizio ‘900), la risposta è invece affermativa: è quel Nemes lì, che non fa sconti, che persegue un’idea di cinema precisa, con un’ostinazione encomiabile.

Sunset è un film estremamente colto, in cui riecheggiano le atmosfere e i motivi delle opere di Schnitzler e Zweig, per citare i più celebri; quella fin de siècle che portò al definitivo tramonto dell’Impero Austro-Ungarico, trascinando con sé lo sfarzo e la magnificenza di quello che fu per un periodo della Storia il vero centro del mondo. Meraviglia come Nemes riesca a mantenere quello stile così preciso, ossia macchina da presa sulla nuca della protagonista, scarsa profondità di campo, numerosi piano-sequenza, mescolando registri con una disinvoltura da autore navigato.

Le premesse muovono ancora una volta da un segmento storico che rimanda a fatti realmente accaduti, anzi, il suo racconto non è possibile nemmeno immaginarlo avulso da tale elemento, così come peraltro è avvenuto in relazione al film d’esordio del regista ungherese. Da lì in poi Nemes si concede tante di quelle licenze, prendendosi altrettante libertà, che non si può non restare colpiti per come Sunset non deragli da un momento all’altro. Una sensazione che purtuttavia è intrinsecamente legata alla poetica di questo regista, che si sostanzia in uno stare in sospeso, nel rimandare di continuo, il negare e negarci una prospettiva piena, sia essa visiva o narrativa.

Opera stratificata, che prende forma nel continuo inseguire qualcuno o qualcosa mentre ci si nasconde, scappando, da qualcuno o qualcosa. Si sentono spesso domande a cui nove volte su dieci non viene data risposta, mozziconi di frasi bruscamente interrotte perché l’azione, totalizzante, irrompe con una forza che soverchia, facendosi violenta. I film di Nemes sono quanto di più assimilabile alla realtà virtuale lato cinema, su uno schermo, in virtù di questo suo risucchiarci dentro il proprio epicentro, dove tutto accade e noi non siamo meri spettatori. In questo rivelando un’idea di cinema purissima, sinestetica, dove ad essere chiamati in causa sono pressoché tutti i sensi, ma pure qualcosa di più.

Sunset si staglia infatti attraverso quell’orizzonte onirico tipico dei sogni, o degli incubi, in cui tutto è sfocato, come le sue inquadrature, nulla è mai abbastanza netto, eppure si viene investiti persino di più da quanto può accaderci in stato di veglia. Questo straniamento che non viene mai meno ci immerge in un’apnea dalla quale ci si riprende solo alla fine, dopo l’ultima inquadratura che rimescola ancora una volta le carte, ma ci vuole coraggio a volersi negare il piacere di farsi destabilizzare a tal punto.

La trasformazione (o le trasformazioni) di Irisz, alla ricerca di sé stessa e di suo fratello al contempo, il terribile segreto da svelare dietro a quella coltre di grandezza e splendore dell’Impero, ci immergono in uno stato catatonico da cui è stupendo lasciarsi cullare, come una malia da cui d’improvviso ci si risveglia, coscienti ma non in toto consapevoli, se non di aver assistito ad un’esperienza come poche se ne vedono. Sunset è mistero, è storia, è arte, è magia; è insomma tutto quello che nessun altro può e sa dire come può e sa la lingua del cinema.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”9″ layout=”left”]

Napszállta (Sunset, Ungheria/Francia, 2018) di László Nemes. Con Vlad Ivanov, Susanne Wuest, Björn Freiberg, Levente Molnár, Urs Rechn, Juli Jakab, Judit Bárdos, Sándor Zsótér e Balázs Czukor. In Concorso.