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Aquaman, recensione: la salvezza non viene dal mare

Il primo vero film d’avventura del progetto DC rischia di farsi travolgere dalla sua stessa leggerezza e dalla mole di elementi in mezzo ai quali a James Wan non rimane che sapersi destreggiare

pubblicato 21 Dicembre 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 14:02

Più che di un Re, è il tempo in cui Atlantide ha bisogno di un eroe, solo che sembra non avere né l’uno né l’altro. Sembra, perché in superficie vive un mezzosangue, nato dall’unione tra la Regina Atlanna (Nicole Kidman) ed un uomo (Temuera Morrison) che, appunto, non ha nulla a che spartire con la stirpe degli atlantidei. Il frutto di questo amore è Arthur (Jason Momoa), che a tempo debito è chiamato a rispondere alla chiamata delle genti, che consiste nel riunire tutti i popoli della Terra sotto un unico vessillo, essenzialmente quello della Pace, o giù di lì.

Prima di Aquaman, inutile girarci intorno, l’asticella della DC lato Cinema è stata posta talmente in basso che riuscire a collocarsi su un livello più alto non avrebbe dovuto essere così complicato. Uso il condizionale perché, va detto, troppe cose sembrano non essere andate fino ad ora, ed il rischio che anche questa nuova parte del progetto si risolvesse in un manicomio è confermato dal film stesso. Tanti i passaggi, ma anche certi elementi, allucinanti, per cui si fa davvero fatica a superare la seppur innegabile necessità di stirare almeno un pochino la propria elasticità, la capacità di assecondare certe assurdità palesi.

Quando l’azione, per dirne una, si trasferisce in una Sicilia rivisitata, forse addirittura inventata, con tanto di scritta pubblicitaria a muro anni ’50 e Banco di Fiducia, ad immettersi in uno spot di Dolce&Gabbana (meno il bianco e nero) ci vuole un attimo. Eppure di lì a poco Aquaman si riappropria della dimensione che gli appartiene, sfoggiando una sequenza sì sconclusionata, ma che alla vista ha un suo merito. È questo uno dei leitmotiv di maggior rilievo nel film: se infatti la vocazione a certe forme di escapismo sia contemplata in scrittura, a tenere in piedi quel che si può, non senza vistose fatiche, è senz’altro l’occhio di James Wan, che invece buono lo è.

La Warner a ‘sto giro si affida in toto al Re Mida dell’horror e dintorni, magari spiegandogli che, per un motivo o per un altro, la formula non ha mai decollato, ma siccome il materiale oramai è quello, qualcosa se ne deve pur fare. Arthur ci viene sottoposto un po’ come una sorta di anti-eroe di tutta prima, uno che vuole salvare ciò che gli è più caro anziché avvertire la portata della missione, che è ben più ampia: scendere ad Atlantide e reclamare per sé il trono, lo stesso che il fratellastro Orm (Patrick Wilson) è a un passo dall’usurpare, aspirando così ad unire tutti i popoli del Mare e muovere guerra contro coloro che vivono sulla terraferma.

Ci si muove perciò da un ambiente a un altro, non con tutta questa disinvoltura, passando da frasi e righe di dialogo tanto più modesti in quanto tentano di essere a loro modo brillanti, puntando tutto sull’azione, ossia su quanto Wan può imprimere con quel suo sguardo che, se non fa la differenza, comunque contribuisce in maniera determinante ad evitare la totale disfatta. Aquaman è un film che fa leva sull’epica, di cui tuttavia si avverte tutt’al più l’aroma, un livello che insomma non raggiunge in nessun caso, sebbene l’intera struttura sia modellata su questa parabola pressoché messianica, in cui un solo uomo è chiamato a riscattare l’intero mondo attraverso il proprio operato.

Velleità che non sono malriposte, guardando al Mito, quantunque una propria Mitologia, come appena accennato, il film non riesca concretamente a costruirsela, ma il cui linguaggio, o per lo meno il cui rimandare a tale linguaggio, qualcosa lascia e si percepisce. Per esempio, verrebbe una gran voglia di vedere un altro film su Atlantide, possibilmente meno quello strato aggiunto di re, dei e semidei, di cui certamente non ci si lamenta rispetto ad Aquaman, ci mancherebbe.

Si resta un po’ interdetti poiché divisi tra il peso che in un contesto del genere va dato alla qualità dell’azione ed il grado di assurdo capace di generare. Limitatamente a quest’ultimo aspetto, ce n’è persino troppo per 143 minuti, finanche in quei frangenti apparentemente “innocui”, come certe espressioni dei volti dei personaggi, ritoccate per accordarsi con l’ambientazione, ossia sott’acqua: piccole cose, dirà qualcuno, ma che un certo effetto lo fanno, specie se considerate unitamente a dialoghi non certo meravigliosi. Va altresì riconosciuto che la fisicità di Momoa, su cui per forza di cose si doveva in qualche modo puntare, non è così pervasiva, quasi distraente rispetto all’azione, richiamata sempre in accordo con quanto sta accadendo. Anche in relazione a questi punti, che paiono dettagli, non si può non ammettere il tocco di Wan, che a forza di lavorare su elementi che sembrerebbero marginali, restituisce quel minimo di credibilità che diversamente l’operazione non avrebbe acquisito manco per sbaglio.

Potremmo addirittura affermare che Aquaman non abbia alcunché da dire, se non nell’ottica del periodo in cui è venuto fuori. La sua esistenza si spiega infatti alla luce dei tanti riferimenti, del suo strizzare l’occhio, talvolta in maniera esplicita, ma per lo più mediante allusione, ad altre fonti; essendo infatti il testo disseminato di certe allusioni, il rinvio continuo a qualcosa di rilevante nell’ambito della cultura pop. Niente di urlato, se non quando si arriva nel deserto del Sahara e parte una versione remixata di Africa dei Toto in sottofondo; in generale sembra quasi che si voglia trasformare Aquaman in un ricettacolo di citazioni più o meno camuffate, un’operazione analoga, come è stato osservato da altri, a Ready Player One, che su tale processo proprio si basa.

È probabilmente questo un caso di extrema ratio, una soluzione alla quale si ricorrere poiché non ne sono rimaste altre, il che, in maniera indiretta ancorché eloquente, ci dà la dimensione di questo lavoro, da ascrivere ad un progetto più ampio e ad oggi difficile da collocare. Quel che si può al momento dire è che ha tutta l’aria di non reggersi granché bene sulle proprie gambe, il che finisce con l’incidere persino su quanto un prodotto così saturo, pieno fino all’orlo, possa aspirare a divertire, coinvolgere anche solo rispetto a quel ritmo così smodato che adotta, a tratti funzionando pure. Tuttavia, desta interesse il sentiero imboccato dalla DC con Aquaman, tendenzialmente diverso dai vari Dawn of Justice, Wonder Woman e Justice League.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”6.5″ layout=”left”]

Aquaman (USA, 2018) di James Wan. Con Jason Momoa, Amber Heard, Willem Dafoe, Patrick Wilson, Dolph Lundgren, Yahya Abdul-Mateen II, Nicole Kidman, Ludi Lin, Temuera Morrison, Michael Beach, Djimon Hounsou, Leigh Whannell, Graham McTavish, Randall Park, Abdul Quadir Amin, Ludi Lin (I) e Natalia Safran. Nelle nostre sale da martedì 1 gennaio 2019.