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Nella Casa: trailer italiano e “prove di manifesto”

Per voi anche un’intervista al regista François Ozon

di carla
pubblicato 15 Aprile 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 15:46

Uscirà il 18 aprile nei cinema italiani il thriller made in Francia di François Ozon, dal titolo Nella casa (in originale Dans la maison). Il film, che ha vinto il Premio FIPRESCI Prize – Sezione Special Presentations al Toronto Film Festival 2012, vede nel cast Fabrice Luchini, Ernst Umhauer, Kristin Scott-Thomas, Emmanuelle Seigner, Denis Menochet, Bastien Ughetto, Jean-François Balmer, Yolande Moreau, Catherine Davenier. Ecco la trama ufficiale:

Un ragazzo di 16 anni si insinua nella casa di un suo compagno di classe per trovare ispirazione per i suoi componimenti scolastici. Colpito dal talento e dall’indole insolita dello studente, il suo professore di francese ritrova il gusto dell’insegnamento, ma l’intrusione scatenerà una serie di eventi incontrollabili.

Qui sopra trovate il trailer italiano, di seguito foto, poster e intervista al regista. Ma prima vi regaliamo, in esclusiva, le prove di manifesto.

Intervista con Francois Ozon

All’origine del film c’è la commedia teatrale spagnola “Il ragazzo dell’ultimo banco” di Juan Mayorga…
Quando ho scoperto la pièce, mi è subito piaciuto il rapporto tra il professore e l’allievo e mi sono messo alternativamente dalla parte di uno e dell’altro grazie alla costante oscillazione del punto di vista. Di solito il rapporto di trasmissione da professore ad allievo è univoco e invece qui è costruito in entrambe le direzioni. Inoltre, il dispositivo di alternanza tra la realtà e il racconto dei componimenti mi è subito parso adeguato per una riflessione ludica sull’immaginario e i metodi narrativi. Sono questioni un po’ teoriche, ma in realtà molto incarnate nella commedia teatrale. Attraverso l’accoppiata Germain-Claude viene proposto il binomio necessario a ogni opera di creazione: l’editore e lo scrittore, il produttore e il cineasta e persino il lettore e lo scrittore o lo spettatore e il regista. Appena ho letto la pièce, ho percepito la possibilità di parlare in modo indiretto del mio lavoro, del cinema, della fonte di ispirazione, dell’essenza di un creatore e di uno spettatore.

In cosa ha consistito il lavoro di adattamento?
La pièce è un maelström continuo di dialoghi in cui tutto si aggroviglia continuamente senza una vera e propria divisione in atti o scene. I luoghi non sono né specificati né diversificati: si è al tempo stesso in classe, nella galleria d’arte, nella casa, al parco… Dunque il mio primo lavoro è consistito nel creare una struttura temporale e spaziale e nell’organizzare il racconto nello spazio temporale e nei luoghi. Poi, ho ipotizzato di ambientare il film in Inghilterra perché la prima immagine che mi è venuta in mente è stata quella di una classe di studenti in uniforme, una realtà e una tradizione che ormai non esistono quasi più in Francia. Germain vede i suoi allievi come un branco di pecore, una massa di imbecilli resa indistinta dalla divisa, quando all’improvviso uno di loro emerge dal mucchio: il ragazzo dell’ultima fila. Tuttavia, collocare il film nel sistema scolastico anglosassone avrebbe comportato un enorme lavoro di adattamento e un lungo processo di selezione del cast e quindi mi è venuta l’idea di rappresentare un liceo pilota che sperimenta il ritorno all’obbligo dell’uniforme, dibattito che si riaccende a scadenza regolare in Francia. Ho anche eliminato e semplificato una serie di cose. Per esempio, nella pièce Rapha-figlio è bravissimo in filosofia, contrariamente a Claude, che eccelle in matematica. I due ragazzi hanno dialoghi troppo brillanti rispetto alla realtà di quello che volevo raccontare io e questo rendeva i loro scambi troppo teatrali e distanti. Inoltre, ci sono anche molte elucubrazioni teoriche sul processo creativo e ho mantenuto solo quelle che mi riguardano personalmente e che hanno una coerenza con la storia. Il punto fondamentale è stato scegliere come mettere in scena i componimenti di Claude. Il primo viene letto integralmente da Germain, come a sancire un patto con lo spettatore, affinché questi comprenda il principio di narrazione continua e di alternanza tema/realtà. Ponendo il dispositivo in modo così dichiarato e concreto subito all’inizio del film, ho potuto liberarmene più velocemente. Il secondo tema viene visualizzato e commentato fuori campo dalla voce del narratore, Claude. E più il film va avanti, meno voci fuori campo ci sono: le immagini e i dialoghi prendono il sopravvento in una narrazione squisitamente cinematografica.

Le lezioni sulla scrittura di Germain e i componimenti di Claude che ne sono l’applicazione sono egualmente appassionanti. Parlare della costruzione della finzione nulla toglie al piacere di vederla realizzata in immagini e di credervi.
Eppure gli eventi descritti nella casa sono molto banali e piuttosto ordinari. A un certo punto mi sono persino domandato se non fosse il caso di aggiungere un’azione più drammatica che ammiccasse al thriller, al dramma poliziesco, in una logica di narrazione più hollywoodiana. Ma poi ho capito che la vera sfida era rendere appassionante quella normalità: il padre, con i suoi problemi di lavoro e la sua ossessione per la Cina, il figlio, con la sua pallacanestro e la sua amicizia per Claude, la madre, con la sua noia e la sua fissazione per l’arredamento della casa. L’idea era rendere straordinarie queste cose insignificanti attraverso il modo di raccontarle e di filmarle e di far salire la tensione attraverso la mise en scène. Nella costruzione della sceneggiatura, tutto mira a rendere partecipe lo spettatore, a coinvolgerlo nella storia e a sollecitare la sua immaginazione. Ci sono dei pezzi mancanti nel racconto: il passaggio tra i temi di Claude e la realtà diventa sempre meno marcato. Il montaggio ha fortemente contribuito a far scomparire il dispositivo di partenza, a rafforzare le ellissi, a giocare sulla confusione tra realtà e finzione.

Arriva al punto di «dare corpo» a Germain nella creazione immaginaria di Claude…
È un riferimento a un dispositivo abituale in teatro che Bergman ha magistralmente utilizzato ne IL POSTO DELLE FRAGOLE e che è stato spesso ripreso da Woody Allen. Non volevo fare ricorso a effetti speciali, volevo che le apparizioni di Germain fossero molto concrete. A un certo punto era necessario che Germain entrasse nella finzione, che ne diventasse un vero interprete. Al momento del bacio tra Claude ed Esther, Germain spunta dall’armadio perché prova un desiderio incontenibile. Era stato lui a dire a Claude di amare i suoi personaggi e costui non ha fatto altro che portare all’estremo questo desiderio. Germain non smette di restare intrappolato dai suoi stessi discorsi.

Quando, alla fine, Claude chiede a Esther di partire con lui, non sappiamo più bene se è la realtà o se sta inventando…
Assolutamente, tanto più che nella scena seguente vediamo Claude che si sveglia. Possiamo pensare che abbia sognato. Esther stessa gli dice: «Tutto questo non è esistito». Poco a poco, immaginario e realtà vengono messi sullo stesso piano poiché, per me, in fin dei conti è tutto vero. Anche il suicidio di Rapha è vero in quanto è stato desiderato da Claude. Bisogna lasciarsi andare alla finzione e non porsi più domande.

La musica, che torna in modo lancinante, ci aiuta a lasciarci trascinare.
Sì, volevo una musica abbastanza ritmata, che incantasse lo spettatore. La melodia che spesso viene riproposta sui temi di Claude ha una vena da romanzo d’appendice, fa venir voglia di conoscere il seguito dei suoi componimenti fino ad arrivare a contaminare l’intero film. Come per SWIMMING POOl, ho fatto leggere la sceneggiatura a Philippe Rombi prima dell’inizio delle riprese e lui mi ha proposto dei brani in anticipo che mi hanno ispirato e aiutato nelle mie scelte di regia.

Il suo non è uno stile naturalista, ciò nonostante il film ha una fortissima valenza sociale: Claude è un giovane escluso sia sul piano famigliare sia su quello sociale…
Nella pièce le sue origini non sono molto chiare, si sa solo che ha avuto un padre disabile e non ha avuto una madre, ma sono aspetti non molto sviscerati né realmente utilizzati. Per questo motivo ho dovuto inventare un contesto sociale a Claude. Nella prima parte del film, sentiamo che non proviene dallo stesso ambiente di Rapha, ma solo alla fine scopriamo la villetta di periferia dove abita e abbiamo la conferma della sua origine sociale modesta. Era importante scoprire e visualizzare tardivamente le origini di Claude per meglio comprendere che la sua ricerca, all’inizio ironica, di un posto nella famiglia ideale si è pian piano trasformata in un sentimento amoroso che scaturisce da una reale mancanza d’affetto.

Possiamo parlare di autoritratto?
No, ma mi sono effettivamente ritrovato nel tipo di relazione che Claude stabilisce con Germain. Per me i professori importanti erano quelli con i quali il rapporto poteva invertirsi, con i quali non mi sentivo del tutto assoggettato. È uno scambio che ho conosciuto tardivamente, quando già sapevo che volevo fare cinema, con professori come Joseph Morder, Eric Rohmer o Jean Douchet, docenti che mi hanno nutrito, confermato determinate intuizioni e incoraggiato, anche a loro insaputa a volte. E poi io sono figlio di insegnanti, ho respirato questo ambiente sin dalla mia infanzia, conosco la corvée della correzione dei compiti durante il weekend, so cosa significano gli allievi preferiti, le tensioni con la direzione… Quindi padroneggiavo l’argomento, sapevo come descrivere gli stati d’animo dei professori, le loro depressioni, le regole a volte aberranti del sistema di istruzione nazionale, come le correzioni con la penna rossa perché pare sia ansiogena per l’allievo.

Un’altra sottigliezza nel rapporto insegnante/allievo è che l’allievo non si limita a superare il maestro: Claude ama il libro di Germain e alla fine si ritrovano in posizione «di parità» sulla panchina…
Nella pièce la fine è diversa: sono su una panchina del parco di fronte alla casa dei Rapha, Germain capisce che Claude è entrato nella sua intimità, che ha incontrato sua moglie. Gli molla un ceffone, gli dice che ha esagerato e mette fine al loro rapporto. Si protegge e non rompe con sua moglie… Ma questa fine non mi è sembrata giusta. Per me, era evidente che la situazione dovesse esplodere, che Claude andasse ben oltre nella crudeltà, che ci fosse una reale interazione tra il mondo di Jeanne e il suo. La vita intima di Germain subisce gli effetti del suo rapporto con Claude, che ha contaminato tutto, come avviene in TEOREMA.

Ma contrariamente all’eroe di Pasolini, Claude non resta maestro di questo gioco di manipolazione, ma si ritrova coinvolto a livello personale.
Claude si illude di poter penetrare in questa famiglia e di farla implodere, ma alla fine l’amore filiale prevale e non riesce a trovare un posto, si sente escluso. In molti miei film, ho distrutto la famiglia, ma in questo, il clan famigliare possiede una forza centrifuga che gli permette di rinsaldarsi e di espellere l’estraneo. Questa famiglia basta a se stessa, non fa spazio all’altro e questo è al tempo stesso bello e crudele. E poi, il problema di Claude è che è al tempo stesso narratore e attore: vuole trovare un posto nel cuore della sua finzione e si innamora di Esther, un risvolto che non si aspettava. Poco a poco, la finzione gli sfugge, perde il controllo, confonde reale e immaginario, si sdoppia, fa di se stesso un personaggio. E, integrandosi nella finzione, si brucia anch’egli le ali. Alla fine, Claude dice: «Il mio professore aveva perso tutto», ma questo vale anche per lui, in un certo senso.

La solitudine e il senso di esclusione pervadono tutto il film.
Attraverso la sua creazione, Claude comincia a conoscere la solitudine e l’esclusione, ma trova conforto e sostegno vicino a Germain. Per questo era importante riunirli di nuovo nell’ultima scena, davanti alla casa di riposo. Per certi aspetti, è un happy end. Volevo concludere il film sulla complicità di queste due solitudini che hanno bisogno una dell’altra per fare esistere la finzione. E ben presto, mi è venuta in mente l’immagine dell’ultima inquadratura: i due seduti su una panchina che guardano le finestre come se fossero degli schermi cinematografici. Come l’eroina di SOTTO LA SABBIA che corre verso l’ignoto sulla spiaggia, Germain e Claude prediligono la finzione alla realtà. È in quella che si sentono vivi.

In quest’ultima scena sulla panchina, Fabrice Luchini è particolarmente commovente. Il tempo è trascorso sul suo volto…
Sì, ha ceduto in qualcosa, traspare un senso di abbandono, il personaggio mostra un’incrinatura. Non porta più i suoi occhiali, vediamo i suoi occhi cerchiati da profonde occhiaia, la sua fatica, la sua età. La cosa meravigliosa di Fabrice è che non ha alcuna forma di narcisismo attoriale rispetto al suo corpo e alla sua immagine e non teme il ridicolo. Avevamo molta voglia di tornare a lavorare insieme dopo POTICHE – LA BELLA STATUINA e per me era scontato che fosse lui a interpretare Germain. Si è dato anima e corpo al ruolo, senza porsi alcun limite. In alcune sequenze, amava così tanto il suo personaggio e lo comprendeva così intimamente che aggiungeva delle frasi e io non riuscivo più a fermarlo nei consigli sulla scrittura che dava a Claude! Adora lavorare e provare, a volte fino allo sfinimento. Ma per un regista è l’ideale avere un attore così dedicato e disponibile a servire un ruolo. Sentivo che il film era importante per lui, gli dava la possibilità di parlare del suo amore per la letteratura. In POTICHE – LA BELLA STATUINA, ha fatto un vero lavoro di composizione, interpretando un personaggio lontano da lui, antipatico. In questo film ha potuto essere se stesso e in ogni caso non ha dovuto assumere molti atteggiamenti studiati. Senza che ne fosse consapevole sino in fondo, questo ruolo di traghettatore ha chiamato in causa la sua natura di attore, le ragioni per cui fa questo mestiere, in particolare in teatro, il suo fervore per la trasmissione dei grandi testi.

Come ha scelto Ernst Umhauer?
Nel film Claude ha sedici anni e ben presto mi sono reso conto che gli attori di quell’età non avevano la maturità sufficiente per interpretare il ruolo. A quel punto mi sono rivolto verso attori più grandi. Ho incontrato Ernst durante la selezione del cast e abbiamo fatto dei provini. Ho trovato che assomigliasse al personaggio: viene dalla provincia, è un po’ a margine del mondo parigino degli attori, è un bel giovane, ma la sua bellezza misteriosa può anche incutere paura, è inquietante. Al momento delle riprese aveva ventuno anni, ma aveva ancora un corpo da adolescente e questo era ideale. È incredibilmente fotogenico e in più ha una bellissima voce, aspetto molto importante visto che la voce di Claude è onnipresente nel film. Germain e Claude formano una vera coppia e Fabrice ha subito capito che era necessario che Ernst fosse bravo e credibile affinché il film funzionasse e quindi è stato molto generoso e paziente con lui. Inoltre abbiamo cercato di girare il film il più possibile in ordine cronologico in modo che Fabrice scoprisse Ernst nello stesso tempo in cui Germain scopre Claude.

Ed Emmanuelle Seigner?
Ho davvero pensato a selezionare gli attori a coppie, non soltanto per Germain e Claude, ma anche rispetto alle due donne. Avevo bisogno di una complementarità: la bruna e la bionda, l’intellettuale e la sensuale, la mascolina e la femminile… Appena ho iniziato a sviluppare la storia d’amore tra Claude ed Esther, ho immediatamente pensato a Emmanuelle. Avevo già elaborato un progetto con lei, che purtroppo non è stato realizzato, nello spirito di QUELL’ESTATE DEL ’42, il racconto di una donna che ha una storia d’amore con un adolescente. Quello che mi piace di Emmanuelle è che non fa elaborazioni intellettuali, si cala subito nella concretezza di un personaggio.

Emmanuelle Seigner è perfetta in questo personaggio, eppure si tratta di un ruolo insolito per lei.
Spesso incarna donne sensuali ma aggressive, mentre in DANS LA MAISON, è molto materna, dolce e tenera. L’abbiamo voluta molto diretta, ingenua, senza una briciola di perversità. È un personaggio indolente: coltiva dei desideri, ma si lascia trasportare dalle situazioni. Abbiamo lavorato sul «secondo piano», sia per i costumi sia per l’acconciatura e il trucco, per dare corpo a quella che Claude definisce «la donna della classe media». Ma nel corso del film la sua bellezza si rivela e acquista sempre più valore, grazie allo sguardo di Claude e all’amore che egli nutre per lei.

E Kristin Scott Thomas?
Ci ronzavamo intorno da qualche tempo. Penso che il ruolo l’abbia davvero divertita. È un’attrice molto anglosassone, in grado di non tradire l’accento straniero, ma io l’ho invitata a conservarlo. Mi piaceva molto l’idea che facesse degli errori in francese, lo trovavo affascinante. È stato molto facile lavorare con lei, ho ritrovato il piacere che avevo provato con Charlotte Rampling, peraltro hanno spesso le stesse intonazioni di voce. E poi la coppia che forma con Fabrice funziona benissimo. La loro complicità intellettuale è credibile e tra loro c’è una chimica, una serie di piccoli gesti di tenerezza, un’evidenza che ci richiama la coppia che hanno formato Woody Allen e Diane Keaton. Sono stato molto contento perché si sono scoperti sul set e hanno subito provato piacere nel recitare insieme. Come Fabrice, anche Kristin ha fatto molto teatro e si sono capiti al volo.

E Denis Ménochet?
Lo avevo visto in BASTARDI SENZA GLORIA di Tarantino. Ho fatto dei provini con degli altri attori, ma appena ho scelto Emmanuelle, ho, ancora una volta, ragionato in termini di coppia. Quindi ho convocato Denis ed Emmanuelle per provare una scena e sono subito andati molto d’accordo, come Fabrice con Kristin. Denis ha un lato molto alla Actor’s Studio: si è completamente immerso nella pallacanestro, nella cultura cinese, è arrivato sul set con un imponente bagaglio di preparazione che in parte gli abbiamo dovuto far dimenticare. Emanava naturalmente di suo qualcosa di Rapha padre, ha una presenza massiccia e sensuale che era perfetta.

E Bastien Ughetto?
All’inizio avevo immaginato il personaggio di Rapha figlio come un ragazzo basso e cicciottello, un adolescente a disagio con il suo corpo, iperprotetto dalla famiglia e capro espiatorio della sua classe. Ma è difficile trovare adolescenti grossi senza scivolare nella caricatura facile. Quando mi è capitato di vedere il volto di Bastien, al tempo stesso bello e strano, ho voluto incontrarlo e mi è piaciuta molto la sua presenza. Sono andato a vederlo recitare in teatro e nel giro di breve tempo gli ho fatto fare dei provini con Ernst. Tra loro si è creata una forte alchimia: Bastien è molto bravo, capace di esprimere nello stesso tempo candore, ingenuità e anche una certa durezza. Come Ernst, ha ventun’anni.

Attraverso il personaggio di Jeanne, fa una caricatura dell’ambiente dell’arte contemporanea.
No, è solo un gioco sui cliché che abitualmente abbiamo sull’arte contemporanea. L’avanguardismo delle opere esposte da Jeanne fa da pendant al classicismo, se non addirittura conservatorismo, difeso da Germain. Quest’ultimo pone la letteratura al di sopra di tutto e mostra disprezzo nei confronti dell’arte contemporanea della quale non capisce nulla. Mi divertiva concludere il film mettendolo di fronte a quel condominio in cui vediamo gli abitanti vivere in piccole scatole e che assomiglia proprio a una tipica installazione di arte contemporanea!

Perché ha cambiato il titolo della pièce Il ragazzo dell’ultimo banco?
Trovavo che conservandolo avrei focalizzato troppo l’attenzione su una sola problematica della storia, ovvero la sindrome «degli allievi dell’ultima fila», che sono studenti diversi, che si distinguono dagli altri, spesso superdotati e al tempo stesso disadattati rispetto alla vita sociale. Ho preferito ampliare la prospettiva poiché, per me, tutti i personaggi sono importanti e la casa è realmente il nucleo della storia, come in molti miei film precedenti. Quindi il titolo NELLA CASA si è imposto in modo naturale.

Nella Casa: foto e poster del film
Nella Casa: foto e poster del film
Nella Casa: foto e poster del film
Nella Casa: foto e poster del film
Nella Casa: foto e poster del film
Nella Casa: foto e poster del film
Nella Casa: foto e poster del film
Nella Casa: foto e poster del film