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Bling Ring: Hermione non abita più qui

Hermione è cresciuta e, almeno al cinema, preferisce gioielli e scarpe Louboutin al posto di bacchette magiche e incantesimi patronus. Breve ritratto cinematografica di Emma Watson, attrice irresistibilmente in ascesa.

pubblicato 29 Settembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 09:20


Nel suo nome di battesimo integrale se ne nasconde uno perfino più affascinante, quello di Charlotte Duerre, che suona quasi come un nome d’arte cinematografico. Ad assegnarglielo, il giorno del suo “natale” parigino (il 15 Aprile 1990) è stata ovviamente la mamma francese, forse già consapevole del luccicante futuro che si prospettava per quella bimbetta dalla pelle candida e lo sguardo vispo e scrutatore.

Parliamo di Emma Watson alias Hermione, forse il personaggio femminile per bambini più popolare dell’ultimo decennio cinematografico grazie alla saga del maghetto di Hogwarts e co-protagonista capace di rubare la scena ad un Harry Potter fin troppo perso dentro la sua storia personale di vendette familiari e maledizioni “riflesse”. Alzi la mano chi, al cinema, non ha provato una subitanea simpatia per quella bimbetta pignola e saccente che dispensava con disinvoltura incantesimi e conoscenze prima ancora di aver messo piede nell’aula della sua scuola “speciale”.

Ma quella sfoggiata da Hermione Granger fin dalle sue prime battute per fortuna non è soltanto sterile pedanteria, perché accanto all’intelligenza nel personaggio alberga anche uno spirito audace e leale, caratteristiche che mettono in crisi anche il cappello parlante, indeciso se smistarla fra Corvonero e Grifondoro. In più c’è quella fragilità bambina che la rende, al di là di tutto lo scibile “incantato” da lei ostentato, niente più che un timido essere alla ricerca di amore e considerazione, giustamente indispettito dalla cronica carenza di sensibilità del classico maschietto bietolone e un po’ immaturo (Ron Weasley).

Tutte caratteristiche, quelle dell’apprendista maghetta mezzosangue, che sembrano inscritte alla perfezione nel genoma attoriale della Watson, capace già, e fin dalla tenera età di nove anni, di perforare lo schermo cinematografico senza usare troppi incantesimi, armata soltanto del suo sguardo inquieto ma sagace e di un’espressione costantemente (e amabilmente) corrucciata, la stessa che non l’ha mai abbandonata nel corso di questi primi e fortunatissimi anni di carriera nella settima arte.

Archiviata dunque l’esperienza fantasy e garantitasi già una “pensione” niente male alle soglie dei 19 anni (per ogni metà de “I doni della morte” ha intascato ben 10 milioni di sterline), Emma oggi può finalmente dedicare nuove energie al suo ingresso nel cinema adulto, nella consapevolezza tuttavia che certe “prigioni” a Hollywood, per quanto remunerative, spesso nuocciono non poco al carattere di tanti bimbi-prodigio. Ecco arrivare quindi l’università (attualmente la Brown di Rhode Island con passaggio di un anno a quella di Oxford) e nel 2011, cioè otto Harry Potter “dopo”, una particina ina-ina nel calligrafico “Marilyn”, dove, a volerla dire tutta, la nostra beniamina, forse per l’”ingombrante” presenza di mostri sacri come Kenneth Branagh e il “catalizzatore” Michelle Williams, appare ancora poco a suo agio nel cinema adulto; quegli abiti, per giunta anni ’60, non troppo si addicono ad un sembiante ancora prepotentemente infantile .

Per scrollarsi di dosso l’aura dell’eterna bambina, anche se di anni ne hai già più di 20, a Hollywood ci vogliono quindi ruoli da adolescenti duri e puri, magari anche un po’ maledetti. Che puntualmente arrivano. Ecco quindi l’adorabile “Noi siamo infinito” in cui duetta, stavolta in modo più convincente e soprattutto vincente, col disinvolto Ezra Miller (già inquietante protagonista di “E ora parliamo di Kevin”) e il Logan Lerman di “Percy Jackson”. Negli anni ’90, tra adolescenze disturbate e discriminazioni sessuali, la Watson si muove benissimo e guadagna anche un’ulteriore schiera di fan più maturi, a lei grati, con ogni probabilità, per aver ricordato agli adolescenti di oggi che si poteva essere felici (e infiniti) anche vent’anni fa. Bastava solo un po’ di vento in faccia, “Heroes” di David Bowie nelle orecchie e il “Rocky Horror Picture Show”.

E dopo il ritratto edificante di un ’adolescenza più “vera”, e l’amichevole apparizione nei panni di se stessa nel folle “Facciamola finita”, arriva il tempo delle ulteriori svolte. E se la seconda risponderà nuovamente al nome di un blockbuster milionario (l’epocale “Noah” di Darren Aronofsky), per la prima viene chiamata in causa dalla maggiore specialista in adolescenze irrequiete, Sofia Coppola, che per “Bling Ring” le regala un ruolo da primadonna nella “gang del gioiello vistoso”, quella resasi colpevole di furti eccellenti nelle ville delle celebrità.

Così, dopo Sam, ribelle ma virtuosa ragazza anni ’90, ecco oggi il suo perfetto contraltare nella Nicki di Bling Ring, esemplare di una i-generation sempre più prigioniera del suo guscio. Una fotografia, quella della Coppola, esente da qualsiasi giudizio morale, se si eccettua quello che trasuda dall’osservazione diretta di questo irragionevole fibrillare per gli oggetti, totem in cui sembra custodita l’idea stessa di appartenenza ad uno status sociale.

Un salto nel buio per una Watson che ammette candidamente di odiare il suo stesso personaggio, professandosi agli antipodi di una simile deriva social, ma anche quella perdita della “verginità cinematografica” necessaria per proiettare l’attrice al di fuori di altri gusci. Come direbbe il suo personaggio nel film“…penso che questa storia rappresenti per me una grande lezione per crescere ed espandere la mia spiritualità di essere umano…” Magari un giorno Hermione sarà presidente, perchè no?