Home Festival di Cannes Leviathan: Recensione in Anteprima del film di Andrei Zvyagintsev in Concorso a Cannes 2014

Leviathan: Recensione in Anteprima del film di Andrei Zvyagintsev in Concorso a Cannes 2014

Un Andrei Zvyagintsev critico ma non disfattista in Leviathan, ritratto di quella Madre Russia alla quale la politica di Putin tenta di ispirarsi. Da qui un discorso permeato di spiritualità e che dunque trascende il russo per esetendersi all’uomo

pubblicato 23 Maggio 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 01:27

«Così come tutti noi, per nascita, siamo marchiati dal peccato originale, allo stesso modo tutti nasciamo in uno “stato”. Il potere spirituale dello stato sull’uomo non conosce limiti». Sono parole di Andrei Zvyagintsev, regista di Leviathan. Uno dei film più attesi dell’edizione di quest’anno, nonché fra i favoriti alla Palma d’Oro. Nelle parole del regista russo c’è in pratica l’illustrazione di questa sua ultima fatica, delle affermazioni taglienti che ci aiutano ad accostarci ad un film imperfetto ma urgente come solo Adieu Au Langage di Godard lo è stato a questo Festival.

Kolia vive in una piccola cittadina isolata nel nord della Russia, presso il Mare di Barents. Con lui condividono lo stesso tetto il figlio Roma, avuto da un precedente matrimonio, e la giovane moglie Lilya. La vita che conduce è piuttosto semplice: appartata, senza particolari svaghi a cui dovere tener testa. Senonché il sindaco vuole sottrargli tutto: la terra, la casa, la sua piccola autorimessa improvvisata. Ogni cosa. Kolia allora decide di rivolgersi ad un un amico di vecchia data, nonché avvocato di successo a Mosca, Dmitriy.

Un incipit, questo, praticamente inutile per inquadrare lo strano contesto di Leviathan. Zvyagintsev impiega la trama a mo’ di scusa, senza credere nemmeno per un istante che questa fosse l’unica adatta allo scopo. La Russia di oggi la si può raccontare da parecchie prospettive, purché lo sguardo sia lo stesso. Ciò che denuncia il regista non ha confini, è la perenne tara dell’uomo, che non trova tregua perché a priori diviso in sé stesso. Ciononostante trattasi di un’opera eminentemente russa, ancorata all’ambiente ed alle sue dinamiche.

In essa Zvyagintsev tenta di raccontare l’uomo approntando un discorso inevitabilmente filosofico, se non addirittura escatologico. La domanda che più e più volte è possibile scorgere tra le righe del racconto, dei volti o delle immagini di Leviathan, in un’ultima istanza, è sempre l’uomo a porsela, ed è sempre la stessa: «che ci sto a fare qui?». A film inoltrato ma non troppo, ci ritroviamo in un’aula di tribunale, costretti ad ascoltare una sentenza in giuridichese stretto, recitata a mo’ di filastrocca, così come si è soliti leggere le sentenze. In realtà a noi di tutti quei codici e codicilli non interessa nulla, né tantomeno hanno rilievo ai fini della storia; ma Zvyagintsev ci costringe a sorbirceli quasi per intero, all’interno di una sequenza che sembra non finire mai, mentre il giudice donna ci vomita quelle frasi così arzigogolate senza mai prendere fiato. Perché?

Attraverso questo passaggio si consolida e si manifesta quella macchina che può senz’altro schiavizzare l’uomo come poche altre, ovvero la burocrazia. Tra le tante misure che esistono per schiacciarci, sembra dirci qui il regista, i riti mediante cui l’autorità costituita dispone delle nostre libertà è fra le più frustranti e pericolose. Un discorso che sa di vecchio, oltre che odorare di quel non meglio precisato populismo di cui, proprio in questi mesi, vengono tacciati i tanti delusi, o sedicenti tali, sparsi per l’Europa. Ma di nuovo: la politica in Leviathan subentra solo in un secondo momento.

Un occidentale potrebbe fare fatica a realizzare che il dibattito politico in un film come questo sia essenzialmente secondario, senonché trattasi di un film russo, e nell’accezione più radicale del termine. Prima che qualunque discorso inerente a questa terra fosse percepito, a torto o a ragione, come uno di quelli a carattere esclusivamente politico, c’era una Russia che trasudava spiritualità, senza la quale quest’antica nazione non era nemmeno pensabile. Esatto, era la Russia dei Dostoevskij, dei Tolstoj, e prima ancora dei Rublëv. Quella della tensione spirituale, al sacro, come momento essenziale per ciascun uomo in ciascun luogo.

Nel film in superficie assistiamo a questa faida tra Kolia ed il sindaco, quella che in un primo momento sembra risolversi in uno scontro di logoramento da una parte e dall’altra, tra minacce velate e sottigliezze giuridiche. Ma non si tratta che di una facciata. La maschera cade nel momento in cui l’ordine e la legge non possono più garantire la riuscita dei propri propositi, ed allora non resta che la forza, psicologica e fisica. L’avvocato rompicoglioni viene prelevato, malmenato e lasciato in un posto dimenticato dal Signore: dov’è la tua legge ora, avvocato? Dove la tua fine compentenza?

Il discorso di Zvyagintsev, ancora una volta, parte dal contesto, al quale (lo ripetiamo) resta saldamente ancorato, per poi raccontarci la miseria così come le virtù dell’uomo. Nessuna figura risulta poco sfumata, sebbene il giudizio del regista su Chiesa Ortodossa e Politica, specie nella misura in cui s’intrecciano, è palesemente impietoso. Eppure…

Eppure la donna che si offre di sua sponte per prendersi cura del figlio dell’amico «senza sapere perché»; oppure l’altra che soffre per il tradimento ancor prima di essere scoperta, ci suggeriscono che non tutto è necessariamente nero come sembra. Un tono, quello cupo e rigoroso di cui è permeata l’intera vicenda, che viene sagacemente stemperato con una vena ironica notevole, capace di farci sorridere a più riprese. Partendo da cliché, come quello dei russi ubriaconi che bevono solo vodka, fino alla satira più elementare quando vengono passati in rassegna alcuni quadri raffiguranti uomini politici di spicco nella storia russa, di cui l’ultimo, Putin, è l’unico capovolto – «non è ancora il momento di parlarne» fa sarcasticamente dire Zvyagintsev ad uno dei suoi personaggi. Un tono che tanto ricorda quello di Balabanov, qui però applicato con più perizia, perché Leviathan assume i contorni della commedia nera senza però mai diventarla.

Anche perché sui generi spazia un po’, passando se del caso pure dal noir quando, sul finire, viene inserito un omicidio inspiegabile, o quantomeno irrisolto. Irrisolto come in fondo, ahinoi, lo è il film tutto. Sì perché in questo suo gioco di metafore, sulle quali poggia abbastanza vistosamente, Leviathan s’incammina per un sentiero impervio, lungo il quale sembra fermarsi a metà strada. Girato meravigliosamente, ha tutta l’aria del film ambizioso che in fondo è. Non bastassero gli accenni poco sopra riportati, si aggiunga volendo anche la durata, che supera le due ore. E se anche questo non è sufficiente, beh, tornate al titolo: Leviathan. Chiara allusione ad Hobbes, hanno detto molti. Sì, ma soprattutto al mostro biblico, quello che tradizionalmente le Sacre Scritture associano a Satana. Interpretazione più fondata alla luce di questa parabola contemporanea che ci parla non di uno ma di più Giobbe russi della nostra epoca.

Ciò detto, l’impressione che si ha in relazione a Leviathan è che sia un film dal potenziale enorme, come già detto ambizioso, che a dispetto della sua sobrietà di fondo riesce a trasmettere un senso di grandiosità che non si limita al formato sullo schermo o a certe panoramiche mozzafiato. Tuttavia sembra un po’ quello che è stato per noi Under the Skin a Venezia: un’opera di cui si avverte una portata maggiore rispetto a quella sinora maturata, e che forse necessita di più tempo per crescere. Tempo che per ora, manco a dirlo, non ci possiamo concedere, dunque questo è ciò che emerge.

Voto di Antonio: 7,5
Voto di Gabriele: 6

Leviathan (Russia, 2014) di Andrei Zvyagintsev. Con Vladimir Vdovichenkov, Elena Lyadova, Aleksey Serebryakov, Anna Ukolova, Kristina Pakarina, Roman Madyanov, Sergey Pokhodaev, Aleksey Rozin, Aleksey Pavlov, Alim Bidnenko e Lesya Kudryashova.

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