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Birdman di Alejandro González Iñárritu: Recensione in Anteprima

Alejandro González Iñárritu cambia registro ed apre il Festival di Venezia 2014 con Birdman, sagace dark-comedy sulla popolarità al tempo dei social network. Anche se è tendenzialmente più universale di così

pubblicato 27 Agosto 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 22:49

Dov’eravamo rimasti? La scorsa edizione la Mostra apriva all’incirca su quel pianosequenza da budella in subbuglio sperimentata in Gravity, tecnica e maestria allo stato dell’arte. Nuova edizione, nuovo pianosequenza: sempre un messicano alla regia e sempre un Emmanuel Lubezki che, fresco di Oscar proprio per il suo lavoro nel film di Cuarón, torna a ripeterci quanto è bravo – e noi lì ad ascoltarlo, perché poco gli puoi dire. Ma in fondo Birdman (o L’inattesa virtù dell’ignoranza) altro non è che un pianosequenza di due ore; camufatto, ma lo è.

Anziché dal principio, partiamo dalla fine. Non del film, state sereni: ci riferiamo ai minuti successivi l’uscita dalla Sala Darsena. Per rendersi conto che questo drastico cambio di rotta di Iñárritu sia elettrizzante basta poco, ed infatti ci si rende conto della cosa in corso d’opera. Tuttavia c’è quel tarlo, apparentemente innocuo ma insistente, che spinge «come un piccolo martellino sulle palle» (Keaton dixit): quando Hollywood si parla addosso, che agguanti l’audience o meno, appare sempre un po’ goffa. Ed in Birdman, credeteci, è la Hollywood post-Hollywood che si analizza, conducendo i lavori con spassosa pedanteria.

Riggan (Michael Keaton) è un attore passato alla storia per aver intepretato un celeberrimo supereroe, Birdman. Dismessi quei panni, la parabola discendente dell’oramai ex-star ha assunto delle forme preoccupanti: Riggan discute con un’oscura voce interna che lo incalza sistematicamente; quando è solo dispone di poteri telecinetici; ma soprattutto è in procinto di mettere in scena l’adattamento teatrale di un’opera di Raymond Carver a Broadway. Che ci si creda o meno, quest’ultima è la cosa più strana delle tre. Tra avversità e tanta diffidenza, il sogno di Riggan è a un passo dal realizzarsi; il non più giovane supereroe sta per compiere l’impresa più impresa di tutte, ovvero quella di salvare sé stesso.

Il percorso è tortuoso, oltre che accidentato, non solo per il protagonista ma anche per lo spettatore. Quest’ultimo, stimolato da una serie di battute-situazioni-idee, non di rado surreali, che si susseguono con delirante costanza, finisce con l’essere sovraesposto ad una certa eccitazione, tangibile pressoché dalla primissima inquadratura, la quale ritrae Riggan-Keaton fluttuante a mezz’aria nel suo camerino intento a meditare. E non si preoccupa, Iñárritu, di contenere questi exploit, perché Birdman è di per sé un grande exploit, unico ed indivisibile. Verrebbe da dire anche “raro”, se non fosse che il tutto prende piede da un tipo di operazione arcinota, ossia la ricostruzione della realtà attraverso il palco; il tutto poi trasposto sul grande schermo. Di recente, tanto per dirne uno, ci ha provato Kaufmann con Synecdoche, New York, film del 2008 che è riuscito a ritagliarsi uno spazio nelle nostre sale qualche mese fa per via della dipartita di Philip Seymour Hoffman.

Sia chiaro, Birdman sta su un altro livello: meno ingarbugliato, più irriverente. Da qualunque prospettiva si osservi questo in fondo superfluo paragone, l’oltremodo complesso Synecdoche, New York ne esce con le ossa rotte; inutilmente denso questo, argutamente stratificata l’opera di Iñárritu. Quantunque entrambi condividano un’intuizione, che è location, una New York imprescindibile se si vuole anche solo alludere in certi termini alla nostra epoca. Una New York che è un palcoscenico, quello su cui si è svolto ed esibito il secolo scorso e nel quale si stanno tenendo (chissà ancora per quanto) le ultimissime repliche all’inizio di quello attuale. Tornando alla presunta necessità di un termine di paragone, diremmo che il nome più indicato sia piuttosto Essere John Malkovich, altra brillante variazione sul tema – fra le migliori di sempre probabilmente.

Su tutte, però, la vera marcia in più di Birdman non è certo l’incipit. Signori miei, qui abbiamo alcune delle prove migliori dell’anno in corso, per alcuni addirittura le migliori da anni. Il redivivo Keaton sta al suo Batman, quello(i) di Tim Burton, quasi quanto una ritrovata malgrado secondaria Naomi Watts sta alla Betty Helms di Mulholland Drive (scena lesbo inclusa); Edward Norton è frizzante quanto basta, ma soprattutto ispirato come non lo si vedeva all’incirca da La 25ª ora; Galifianakis è un meno riconoscibile produttore contenutamente effeminato, molto funzionale. Difficile a ‘sto giro trovare un solo attore/attrice fuori posto o anche solo fuori fase; a suo modo Birdman ridà fiducia alla recitazione al cinema, pur dovendo pagare pagare l’ineludibile dazio al teatro. La differenza, rispetto alle seppure notevoli eccezioni che ogni tanto vanno imponendosi in questa o quella produzione, è che in questo contesto il lavoro corale vince sul singolo, senza mietere vittima alcuna.

Alcuni dei passaggi più riusciti, nonché esilaranti (perché ricordiamoci che questa è una commedia, amara, atipica, ma pur sempre una commedia), passano da dialoghi ed episodi sopra le righe; sia che si tratti di due attrici scoppiate che però si danno manforte a vicenda, sia quando la condizione di una ex-celebrità oramai sul viale del definitivo tramonto viene riassunta con un lapidario «oramai sono soltanto una risposta di Trivial Pursuit». E di questi momenti così spassosamente devastanti Birdman ne è pieno zeppo, anche perché non si tratta di uscite estemporanee buttate lì senza criterio, bensì rientranti in un discorso ben più ampio ed anche piuttosto articolato.

Più reale del reale, quest’ultima fatica di Iñárritu scardina certi cliché e luoghi comuni gettandola sul sarcasmo più sfrenato, quello che prima ti addolcisce la bocca e poi ti lascia un sapore acre, che lì per lì non sai se rigettare o se invece d’ora in avanti non puoi più farne a meno. Birdman ironizza su tutto, stemperando a dovere sia una certa gravità di fondo, comunque insita nel progetto, sia la patente leggerezza con cui la popolarità al tempo dei social network viene presa per i fondelli prima ancora che analizzata. Nondimeno l’approccio ha un suo perché; funzionando eccome in quei frangenti in cui di mira vengono presi il naso di Meg Ryan o il mento di George Clooney, passando per lo sfottò in apertura a Jeremy Renner («anche lui negli Avengers?! Ormai mettono addosso un costume a chiunque!»), un po’ meno quando l’atmosfera si fa più seriosa e quasi ci caschi a vedere i vari personaggi atteggiarsi ad attori qualunque, standard nella peggiore delle accezioni.

In fondo però il regista messicano potrebbe volerci dire anche questo; siate comprensivi con loro attori… avranno pure problemi che buona parte di voi vorrebbe avere senza pensarci due volte, ma a quel livello sono pur sempre problemi e non per forza benedizioni. Ok, magari non vorrà esattamente dire questo, ma chi può dirlo? Ciascuna delle marionette di questo show (che non a caso si svolge quasi interamente dietro e davanti le quinte di un vero teatro) entra ed esce dalla finzione con una disinvoltura disarmante, tanto che a voler osservare da vicino il cervello dello spettatore sarebbe grossomodo come assistere dal vivo ad una partita di tennis, mentre i due giocatori si prendono a pallinate da una parte all’altra del campo.

Anche qui, tanti corto circuiti, alcuni apparentente troppo compiaciuti, tanto da sembrare un po’ fini a sé stessi; altri, e sono in numero maggiore, decisamente riusciti. Ed anche quando il colpo non va a segno, o ci va in maniera tutt’altro che impeccabile, si ha l’impressione che il film guadagni sempre un centimetro di terreno rispetto allo scopo. Probabilmente un po’ più lungo del dovuto, dato che le due ore si sentono abbastanza, ma la materia è di quelle incandescenti, sempre pronta a versarsi fuori; ed infatti sarebbe bastato poco per mandare tutto in malora. Invece, e questa è la notizia, Iñárritu tiene saldamente in mano le redini dopotutto. A sorpresa o meno, nel bene o nel male, il colpevole in Birdman è senz’altro la sua ambizione. Quale che sia il responso, prendetevela con lei.

Voto di Antonio: 8
Voto di Federico: 8
Voto di Gabriele: 6

Birdman (Birdman, or The Unexpected Virtue of Ignorance; USA, 2014)di Alejandro González Iñárritu. Con Emma Stone, Edward Norton, Naomi Watts, Andrea Riseborough, Michael Keaton, Zach Galifianakis, Amy Ryan, Merritt Wever, Natalie Gold, Joel Garland, Clark Middleton, Bill Camp, Anna Hardwick, Dusan Dukic, Carrie Ormond e Kelly Southerland.