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Knight of Cups: recensione in anteprima del film di Terrence Malick

Un Malick ancora più a briglia sciolta ci incalza con quello che è probabilmente il suo film più denso e visionario. Knight of Cups è un’esperienza rara, anche e soprattutto per gli estimatori del regista texano

pubblicato 9 Febbraio 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 18:20

Find your way from darkness to light.

In questa frase può riassumersi in qualche modo ciò che Terrence Malick sta tentando di fare in particolare da The Tree of Life in avanti: «trova la strada che porta dalle tenebre alla luce». Lo si può anche avversare per questo, non sopportando che un cineasta provi a volare così alto, ma è evidente che l’interesse suscitato da ogni suo film è indice di una domanda alla quale le risposte di Malick corrispondono. Fosse anche solo curiosità, il desiderio di capire più che altro fin dove si è spinto stavolta l’autore de La sottile linea rossa.

C’è chi ha sorriso quando Malick mostrò immagini del cosmo ai primordi, così come dinosauri e quant’altro. Che direbbero oggi osservando una Las Vegas che contempla in sé, artificialmente, le epoche più svariate? Quante inquadrature che si soffermano su sculture ed edifici appartenenti al passato dell’uomo, ma non all’uomo passato. Perché tale creatura non esiste per Malick: l’uomo è sempre lo stesso, da sempre. E per raccontarcelo stavolta fa fondo alla fiaba; perché Knight of Cups questo è: una fiaba contemporanea.

«A nessuno interessa più nulla della realtà», si sente durante il peregrinare di Rick (Christian Bale), mentre una donna meravigliosa mostra elegantemente il collo, sul quale è incisa la parola «faith» (fede). Un inno alla fede è questo percorso onirico tra realtà e ricordi. I personaggi di Knight of Cups, come quelli di The Tree of Life o di To the Wonder, avvertono un bisogno costante di toccare le superfici attorno a sé, che si tratti di una parete, una ringhiera, una spiga di grano, una pianta e via discorrendo. Hanno bisogno di «sentire» che sono vivi, che ciò che sta loro accadendo non sia soltanto un sogno, bello o brutto. Solo così il loro anelito, le loro preghiere, hanno un senso.

In più punti la macchina da presa inquadra il cielo mentre passa ogni sorta di velivolo (aereo, elicottero, aeroplano), perché, se è vero che Rick vuole tenere i piedi saldi a terra, è altresì vero che ha un disperato bisogno di alzare gli occhi verso l’alto. In cerca di un altrove, L’altrove per alcuni, quello da cui si aspettano risposte, sollievo. L’amore di cui parla Malick ha un nome, o meglio, una descrizione: vivere a pieno il presente. Rick porta con sé ricordi e debolezze che lo trascinano reiteratamente in una spirale di nonsenso, in quel vuoto che risucchia e da dentro il quale non si vede mai né dove comincia né dove finisce.

Difficile, se non altro inutile, scrivere di Knight of Cups in altri termini. C’è tanto, troppo, in questo torrente d’immagini che trasudano grandiosità da tutti i pori: trovatemi un altro, chiunque altro, che sia capace di convogliare pensieri così densi e complessi in una singola, spettacolare inquadratura. Già adesso la tentazione sarebbe quella di un secondo giro per catturare istantanee qua e là, di cui il film è pieno zeppo. Tuttavia ne uscirebbe ridimensionata l’intera operazione limitandoci ad una mostra fotografica, perché quello di Malick è un lungo pianosequenza emozionale che non ammette mutilazioni, rallentamenti, modifiche di alcun tipo.

Pensare a questo viaggio come a un insieme di tappe è quanto di più fuorviante, perché il tutto si colloca su un piano ben diverso, che non è reale ma nemmeno immaginifico. È vero, autentico, perciò più reale del reale. Come dire? Quando Rick torna indietro con i ricordi oppure si proietta in avanti con la mente, non si può mai dire con assoluta certezza che non sia totalmente presente a sé stesso. La sua perenne, inappagata ricerca di amore lo porta a commettere errori suoi, subire quelli altrui, e poi convivere con le conseguenze di tutto ciò. È la quotidiana battaglia dell’esistenza, quella dalla quale nessuno è escluso (anche questo lo si dice nel film).

Rick è paradossalmente il più taciturno di tutti ma al tempo stesso colui la cui voce si sente più spesso, tra suppliche, confessioni, richieste. Sullo sfondo di una Los Angeles spettrale, sia che si tratti di camminare per le sue strade, sia che invece ci si muova all’interno di vuoti ma maestosi set hollywoodiani. Ed il digitale pare essere nato per nient’altro che catturare le notti lonsageline, il loro buio tendente all’arancione, le sue luci così uniche, come lo sono i suoi colori – lezione già impartita con abbagliante successo da Michael Mann.

Ma c’è tanto altro, ve lo abbiamo già detto. Il mito di Sisifo, l’«ama e fa ciò che vuoi» di Sant’Agostino, il vertiginoso rapporto tra universo e Terra, la nostalgia costante di un luogo che non si conosce, ma che ci attrae sempre, dovunque, nei nostri sogni, nelle nostre speranze così come nelle nostre aspirazioni. A tratti è il narratore del Qoelet di biblica memoria ad appropriarsi del voice over, se non addirittura delle mani del regista, il quale mostra che in fondo «vanità delle vanità, tutto è vanità». Ci vuole coraggio per andare così a fondo, anche solo per provarci: in un’epoca talmente avulsa dal dogma, e che anzi ne ha proprio ripudiato l’idea, è estremamente necessario qualcuno che ci inviti a recuperare quella capacità per cui, con Chesterton, «si può capire tutto solo grazie a ciò che non si capisce».

Le feste sfarzose, il successo nel lavoro, le innumerevoli, provocanti donne che Rick incontra non rappresentano il problema: sono solo un modo per evaderlo. Knight of Cups non a caso si sofferma molto sulle relazioni di Rick, quelle vere, quelle che lo hanno cambiato sul serio. È per sempre l’amore? Si può amare una sola volta oppure di più? E sempre allo stesso modo? Sono quesiti terribili, che nondimeno tormentano un uomo che semplicemente crede di non essere più in grado di amare: chiunque, compreso sé stesso. Svariate sono le fasi della sua vita che vengono evocate nel film; lo evinciamo dalle lussuose abitazioni che si succedono in maniera non consequenziale. Tanto che l’inizio del film potrebbe benissimo essere l’approdo attuale della storia di Rick, rimasto solo, in uno spazio angusto, essenziale, elegante, ma non per questo al riparo dalle scosse di terremoto che fanno tremare l’intero edificio.

Il discorso perciò resta invariato, e Malick continua imperterrito a seguitare per la sua strada, mostrando una coerenza ed un’abilità speculativa che gli vale senza dubbio, unico, il tutt’altro che fantasioso titolo di filosofo della macchina da presa. Nessuno è in grado attraverso questo mezzo di elaborare concetti, percorsi, teorie, con questo grado di raffinatezza e sintesi. Perché chi credesse che Malick ci goda a “complicare le cose” o a “non farsi capire”, beh, sappia di essere vittima di un fondamentale equivoco: Terrence Malick, semplicemente, ci parla di cose di cui non parla nessun altro, in un modo in cui non ci riesce nessun altro. Ammassate cinematografie intere e non otterrete lo stesso grado di efficacia in un arco così relativamente ristretto.

Voto di Antonio: 9
Voto di Gabriele: 8

Knight of Cups (USA, 2015) di Terrence Malick. Con Christian Bale, Cate Blanchett, Isabel Lucas, Natalie Portman, Freida Pinto, Teresa Palmer, Wes Bentley, Ryan O’Neal, Antonio Banderas e Joe Manganiello. In Italia verrà distribuito da Adler Entertainment.

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