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Il Club: recensione in anteprima del film in concorso a Berlino 2015

Festival di Berlino 2015: disturbante come Tony Manero e Post Mortem, e con un’estetica sporca come No – I giorni dell’arcobaleno. Torna il cileno Pablo Larrain, che firma con The Club il suo ennesimo, splendido lavoro: questa volta c’è di mezzo la Chiesa. Ma è il tassello di un percorso che si scaglia contro tutti i ‘sistemi’. In concorso, e da Orso d’oro.

pubblicato 10 Febbraio 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 18:17

Un gruppo di preti vive assieme alla suora Mónica in una casa sulla costa cilena. Quando non pregano per espiare i loro peccati, allenano il loro cane da corsa per le gare. Cosa li ha portati lì dove sono? Il fatto di aver commesso peccati gravissimi, punibili legalmente. Quando un nuovo prete viene portato in casa, le cose prendono una brutta piega: un uomo del posto inizia infatti ad accusarlo di cose terribili…

Pablo Larrain si allontana da Pinochet. Sono passati tre anni da quando il regista cileno ha chiuso la sua trilogia sull’epoca più oscura del Cile. L’aveva cominciata nel 2008 con Tony Manero, proseguendola nel 2010 con Post Mortem, e quindi concludendola nel 2012 con No – I giorni dell’arcobaleno, che l’aveva finalmente consacrato.

Certo, The Club ha un titolo che è tutto un programma. È facile pensare che quel ‘club’ sia lo stesso Cile, e che il quinto lungometraggio del regista sia la naturale continuazione della sua radiografia del paese, finalmente arrivata all’oggi. Però il tema al centro della pellicola dovrebbe almeno far scattare un campanello d’allarme, e costringere a rileggere il cinema di Larrain tutti quelli che avevano visto la trilogia precedente ‘solo’ come un film sulla Storia del Cile all’epoca di Pinochet.

Lo scandalo dei preti pedofili e il fatto che la Chiesa – come istituzione e sistema – li copra in ogni modo sta alla base del film: mica qualcosa di tipicamente solo cileno. Però allora come mai Larrain s’interessa di punto in bianco a un tema che interessa da vicino, e politicamente, tutti noi? Il fatto è che forse Larrain non ha mai solo parlato di Cile nei suoi film precedenti, anzi.

In The Club la tematica è chiara non solo per la storia che si affronta, ma anche perché si tratta della prima trama corale che Larrain affronta. Nel suo primo ensemble movie ci sono quattro preti con un passato misterioso, rinchiusi in una ‘galera’ gestita da una suora che ha pure il suo passato e i suoi problemini. A interrogarne i misteri c’è un nuovo prete che giunge nel ‘club’ con le intenzioni di trovare la chiave giusta per poterlo chiudere definitivamente, convinto che lì dentro ci sia qualche problema di troppo.

Ci si alza a una certa ora, si prega, si fa colazione, a mezzogiorno si va a messa, all’una si pranza, poi si canta, poi c’è un po’ di tempo libero, alle otto c’è il rosario, e poi si cena. Così ogni giorno, fino alla fine dei tempi. Un programma ‘canonico’ con le sue regole ferree: se non le si rispetta chissà cosa può capitare. Meglio attenersi a quello che ci viene suggerito di fare, altrimenti le conseguenze potrebbero essere pesanti.

È qui che il discorso di Larrain mi sembra più inquietante che mai: perché che differenza c’è fra il sistema della cultura della violenza di Pinochet, che plasma le menti e le anime, e quello della Chiesa cattolica? La tematica dei preti pedofili, comunque delicata e affrontata di peso nel film, è quasi uno specchietto per le allodole. Guardate soprattutto i finali dei due film: quello di The Club non è incredibilmente simile a quello di Post Mortem?

Altro che anticlericalismo da due soldi: Larrain pare dirci che che siamo votati a nascondere il male che commettiamo nel modo più sporco possibile, sempre e comunque. Nel caso di un discorso come quello di The Club, figurarsi, fa ancora più orrore. Anche perché a un certo punto non si capisce più da che parte stare, se con i preti peccatori o con il prete troppo impiccione.

Larrain non giudica nessuno dei personaggi, nonostante le nefandezze che hanno commesso e commetteranno nel film. È furbo: mica è qualcosa di negativo, visto che la furbizia diventa elemento forse necessario per portare a casa il risultato. Anche l’uso dell’ironia, presente in modo massiccio e ancora più evidente dei precedenti lavori, ha una sua motivazione di esistere nell’economia del film.

Ma resta il fatto chiaro e lucido che Larrain non ha cattiveria e ferocia verso gli uomini che descrive, essendo esseri umani con tutti i propri limiti (qui sì che ci si scaglia contro l’incapacità della Chiesa di pensare ai preti innanzitutto come uomini). Sta anche qui di conseguenza la sua umanità, altro che cinismo!: nel capire che sono le contraddizioni di un sistema a fare saltare equilibri di tutti e nervi personali, e a svelare quel che di marcio siamo capaci di fare per davvero. Tutta l’ultima parte di The Club, per tensione, violenza e angoscia, è a tratti davvero insostenibile.

The Club ha un climax e un’atmosfera che richiamano direttamente Tony Manero e Post Mortem, ma anche un’estetica ‘sporca’ che richiama di più No: ci sono immagini in controluce, intere scene poco illuminate, inquadrature sfocate su primi piani, e una musica disturbante e dissonante. Chi ha ancora oggi il coraggio di fare film con uno stile così poco gradevole, convinto che possa funzionare e che il pubblico possa ‘capirne’ le intenzioni?

The Club è la conferma che esiste un regista enorme sotto ogni punto di vista, capace di continuare un discorso cinematografico e politico che non ha eguali sulla piazza. L’ha pure girato di nascosto, questo film, senza che nessuno se ne rendesse conto. E poi come in No non manca un brano musicale che si continuerà a cantare anche dopo l’uscita dalla sala: solo che questo brano lo si canta sottovoce…

Voto di Gabriele: 10
Voto di Antonio: 9

The Club [El Club] (Cile 2015, drammatico 98′) di Pablo Larrain; con Roberto Farías, Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking.

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