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Cannes 2016, The Handmaiden: recensione del film di Park Chan-wook in Concorso

Festival di Cannes 2016: un Park Chan-wook più sofisticato torna tra le mura di casa con un film dalla confezione ineccepibile, sebbene alla fine risulti meno immediato. Un’invettiva al Giappone di oggi soffermandosi su quello precedente la Seconda Guerra Mondiale

pubblicato 15 Maggio 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 11:23

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Uno dei più attesi quest’anno era certamente Park Chan-wook, il cui The Handmaiden segna il ritorno in patria dopo la parentesi patinata con Stoker. Opera di innegabile eleganza, che non è solo forma, accusa rivoltagli per via del suo film hollywoodiana (troppo facile!), bensì qualcosa di più. Ma anche qualcosa di meno, perché la sua pulizia stavolta sì, presta il fianco a qualche riserva.

Siamo negli anni ’30, e la Corea è occupata dall’Impero giapponese. Tale dominio dà adito a forme di schiavitù le più disparate, come quella che vuole famiglie facoltose nipponiche pescare tra i coreani personale per le proprie sfarzose abitazioni. Uno di questi è Kouzuki, «il più ricco tra gli amanti delle lettere, ed il più letterato tra i ricchi»: possiede una collezione invidiabile di volumi nel seminterrato della sua lussuosa villa, tutti a tema pornografico, spinto peraltro, in alcuni casi estremo. Qui vi abita anche Lady Hideko, che necessita di una domestica, procuratagli dal Conte proprio in Corea: un triangolo attorno al quale ruota essenzialmente l’intera vicenda.

Che The Handmaiden non sia solo una lussureggiante fotografia, dei sinuosi movimenti di camera e via discorrendo (è anche queste cose eh), lo si ricava dalla struttura del film, esplicitamente diviso in tre atti interconnessi tra loro. Il racconto infatti non segue la regolare progressione degli eventi in avanti, ma ritorna a più riprese su certi passaggi, visti da una prospettiva diversa, al fine di mostrarne le reali implicazioni, quelle che, in un primo momento, ci vengono precluse.

Si tratta di una soluzione narrativa anch’essa affascinante, oltre che sensata, come in fondo lo è il modo in cui Park Chan-wook gira il tutto; dovete sapere che da principio l’intenzione del regista coreano era quella di fare ricorso al 3D. Resosi conto che che questa strada non fosse praticabile, ma ugualmente interessato ad esplorare in un certo modo gli ambienti, ha ritenuto che questo fosse lo stile più adatto rispetto all’idea iniziale.

D’altra parte ci sono scene che restano impresse, come, manco a dirlo, quelle di sesso lesbo tra le due protagoniste, così come le immancabili amputazioni. Situazioni che, per quanto delicate, vengono però filtrate con un’ironia di fondo meno marcata nei suoi film precedenti, dove il tenore era decisamente più netto e disturbante. The Handmaiden è un’altra cosa, anzitutto perché di mezzo c’è anche una storia d’amore, sebbene ritengo sia meno centrale di quello che sembri.

Avranno di che rallegrarsi tutti coloro che hanno a cuore istanze velatamente o meno femministe, o che comunque s’interessano al ruolo della donna in genere, al cinema e fuori. The Handmaiden è una storia di donne, in un’ottica peraltro, se non positiva, certamente di superiorità rispetto agli uomini, i quali da un simile ritratto ne escono decisamente male. Tuttavia, c’è da ragionarci un po’ su.

Vero è che il percorso del film vuole Sooke e Hideko liberarsi dall’abietto dominio di alcuni uomini, divincolandosi dall’essere ulteriormente fatte oggetto di certi laidi desideri. Ed è altresì vero che tali desideri siano laidi, e che sono i maschietti a coltivarli con una passione inquietante. Ma di quest’opera non va affatto dimenticata la portata storica: perché immergerla in quel periodo, per esempio? E perché poi mettere in mezzo i giapponesi?

L’impressione è che Park Chan-wook, descrivendo quell’ambiente lì, quell’Impero pre-bellico che ancora faceva paura, specie a chi cadde preda delle sue mire espansioniste, voglia dirci qualcosa sul Giappone di oggi. Focalizzandosi su certe sue ossessioni; ossessioni che certa cronaca ci riporta proprio oggi soverchianti. La pornografia nell’odierno Giappone è un fenomeno ben più complesso rispetto a quanto non lo sia in Occidente: tasso di natalità sceso all’inverosimile, sempre di più sono gli uomini che da quelle parti preferiscono al sesso un cospicuo numero di forme surrogate. In altre parole, una fetta considerevole di maschi giapponesi sembra preferire di gran lunga il voyeurismo alla pratica. Rispetto a noi la differenza, al di là della cultura che ne modifica gli sviluppi, è che sono più in là in questo processo.

Un discorso che non è estraneo a The Handmaiden; c’è dell’evidente sarcasmo nel modo in cui Kouzuki studia e cataloga genitali, così come la sua morbosa passione per dettagliati racconti a sfondo sessuale, disegni a tema e quant’altro. Solo incidentalmente si tratta di uomini? No di certo. Ma alla luce dell’epilogo, non si può fare a meno di notare come il Conte, tutto sommato, si salvi proprio ai tempi supplementari: «almeno non ho perso l’uccello», dice, stante il pene per la sua virilità. Virilità che il Conte ha dovuto gradualmente mettere da parte per attuare il suo piano, e che sostanzialmente consiste nel dissimularsi, diventare come loro, gli odiati giapponesi.

Non a caso The Handmaiden è un Park Chan-wook decisamente più sofisticato, per questo meno accessibile. Cunnilingui e sforbiciate, anzi, tendono qui ad assecondare certe voglie, quelle che al tempo stesso il film mostra implicitamente di voler condannare. Chi volesse perciò leggere nel film un contributo al discorso LGBT dovrebbe perciò andarci cauto: quella tra le due protagoniste è una storia di amore dove però non c’è amore ma solo campanelli che generano orgasmi. Park Chan-wook si trova più in profondità, oltre la scorza perfettina e tendenzialmente conciliante riscontrabile in superficie.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”8″ layout=”left”]

The Handmaiden (Agassi, Corea del Sud, 2016) di Park Chan-wook. Con Ha Jung-woo, Kim Min-hee, Jo Jin-woong e Kim Tae-ri.

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