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Spider-Man: Homecoming – recensione in anteprima

Meno Marvel tra i film Marvel, il processo a ritroso di Spider-Man: Homecoming, unito alla giovane età del protagonista, fanno la differenza per quello che, al di là di tutto, è finalmente un buon Uomo-Ragno

pubblicato 4 Luglio 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 04:28

Peter s’annoia. Spider-Man: Homecoming comincia come una sorta di dietro le quinte di Civil War, con il giovane che prende l’aereo, posa le valige in albergo, si prova il vestito e torna all’aeroporto di Lipsia per sottrarre, anche se per poco, lo scudo a Capitan America. «Un film di Peter Parker», si legge all’inizio, ed infatti le prime sequenze sono le sue, registrate tramite cellulare, come farebbe un qualunque ragazzino della sua età. L’età del protagonista di questo nuovo Uomo-Ragno fa la differenza, contribuendo a renderlo il meno Marvel tra i film Marvel; più avanti capiremo il perché.

Homecoming riesuma la (a dire il vero mai tramontata) lotta di classe, e lo capiamo quasi subito, quando la piccola impresa di Adrian Toomes (Michael Keaton) perde la commessa concordata col comune per il recupero di materiale allorché, otto anni or sono, la torre degli Avengers venne distrutta. La Damage Control di Tony Stark e soci subentra nel peggiore dei modi, scacciando dal sito Toomes e i suoi operai, tanto che poco più avanti uno di questi dirà: «è sempre così, prima distruggono e poi vengono pagati per sistemare». Non ci si faccia fuorviare però: passino le premesse, le conclusioni sono tutt’altro che “marxiste”, con questo capo-cantiere che si ricicla raccoglitore illegale di materiale alieno, con cui fabbrica armi per gli altri e delle ali meccaniche per sé; nasce così Avvoltoio.

Nel frattempo Peter ha dovuto suo malgrado lasciarsi alle spalle le prodezze in terra teutonica, quella trasferta meravigliosa che di fatto gli ha cambiato l’esistenza; ora è tornata la routine, che è la bella zia May (Marisa Tomei), l’amico Ned ed in generale la scuola. Qui si svolge parecchio del film, sebbene Jon Watts si guardi bene dal riproporre un “Breakfast Club anno 2017″ coi supereroi (o anche senza). Non un teen movie tout court perciò, ma certo è che l’età del protagonista e la conseguente ambientazione contribuiscono all’idea di cui in apertura, secondo cui mai fino ad ora si è riusciti a prendere fino a questo punto le distanze da un format di volta in volta declinato in modo diverso ma sostanzialmente sempre uguale.

Una storia che vola basso, Homecoming, in cui non c’è un mondo da salvare, o addirittura un universo intero, tutt’al più qualche visitatore che parte da Staten Island per visitare la Statua della Libertà. Si ha davvero l’impressione che, al netto di tutti i compromessi ai quali una produzione di questo tipo deve far fronte, ci si sia impegnati sul serio nel concentrarsi sul protagonista, i suoi conflitti derivanti dal passaggio che sta vivendo: da ragazzino qualunque, pure un po’ sfigato, a supereroe. Questa trasposizione di Spider-Man insomma non si accontenta più dell’iconico «da un grande potere derivano grandi responsabilità», decidendo di dare consistenza a tale aforisma attraverso le due ore e passa di film.

Film che non per niente procede all’incontrario: comincia con l’eroe che ha già la sua maschera, il suo travestimento, di conseguenza lo sviluppo della storia non ha come apice quella di acquisirli bensì di disfarsene. Peter non ha praticamente avuto modo di capire cosa e perché rispetto ai suoi “poteri”, subito agevolati, amplificati da una tuta che non è mero pretesto per celare la propria identità ma un potenziamento a tutti gli effetti, gentilmente donato dalle industrie Stark. Ad un certo punto, da bravi nerd, lui e Ned finiscono addirittura col manometterla la tuta, sabotando l’hardware e sbloccando praticamente tutte le sue potenzialità come quei ragazzini che usano i trucchi nei videogiochi. L’esito, telefonato, è che Peter è ancora più goffo, impacciato, ancora più lontano perciò dal comprendere cosa significhi essere un supereroe, che nel suo caso si traduce anche nel conoscere meglio il proprio corpo, ciò di cui è capace.

Anche stavolta irrompe il sottotesto, consapevolmente o meno, per cui la parabola del giovane protagonista, in un’epoca come la nostra, aspira a farsi universale, noi che (ci) siamo circondati di ammennicoli ultra-tecnologici, i quali da un lato ci rendono la vita più semplice, dall’altro ce la rendono troppo semplice, al punto da sostituirsi a chi vi fa ricorso. Succede anche a Peter, che alla sua tuta finisce col dare pure un nome, dato che non solo parla ma prende finanche decisioni, sebbene in modo surrettizio. Scemata perciò la meraviglia geek per l’accessorio, tocca fare i conti con le implicazioni derivanti dal suo utilizzo, una lezione che Homecoming riesce ad impartire senza moralismi e crociate, solo mediante il racconto.

Non un teen movie ma poco ci manca, Homecoming fa registrare i primi segni circa l’abbandono di un progetto che prima o poi dovrà concretizzarsi, a cavallo com’è tra la Marvel che è stata e quella che potrebbe essere. Rimane quell’andamento leggero, quel non prendersi mai troppo sul serio ben calibrato, anzi, per certi versi pure più centrato che in altre occasioni, laddove la congerie di CGI e passaggi pretestuosi finivano o col coprire o col seppellire il supereroe di turno; mentre qui il protagonista è Peter prima ancora che l’Uomo-Ragno, dato che si riesce ad entrare ancora più nel merito di una fusione tra i due che non si è ancora del tutto consumata, facendone due personaggi a sé stanti. Con in più la firma di certi ricorrenti campi lunghi da slapstick.

Homecoming riesce pure a riservare qualche sorpresa in prossimità della fine, con un twist inaspettato ma che a suo modo conferma l’intenzione di offrire qualcosa di più allo spettatore, magari anche di diverso. Un processo di diversificazione tutt’altro che semplice a questi livelli ma di cui abbiamo avuto già traccia in Doctor Strange; resta da capire se a sua volta tale processo non sia già proiettato nella Marvel che dovrà ripartire da zero. C’è che oramai emerge una padronanza tale da non strafare in nessun caso, né per eccesso né per difetto, conseguendo risultati credibili, come succede anche stavolta. Nemmeno così marginale, poi è lo stesso Iron Man, il quale anzi, alla luce di quanto appena evidenziato, ha un ruolo fondamentale; lui, il più riuscito degli esperimenti Marvel lato cinema, che inietta nel progetto quel po’ di novità che sa essere necessaria per proseguire. Un capitolo importante, perciò, perché Homecoming non solo ha tutta l’aria di essere un buon Spider-Man, ma ci riesce, e questa è la notizia, malgrado si ponga come un film Marvel atipico, proiettato già altrove. E dire che l’Uomo-Ragno fino a qualche tempo fa non avrebbe nemmeno potuto prender parte a tutto ciò.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

Spider-Man: Homecoming (USA, 2017) di Jon Watts. Con Tom Holland, Marisa Tomei, Zendaya Coleman, Robert Downey Jr., Michael Keaton, Tony Revolori, Martin Starr, Jon Favreau, Angourie Rice, Donald Glover, Logan Marshall-Green e Garcelle Beauvais. Nelle nostre sale da giovedì 6 luglio 2017.