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Venezia 2017, Tre Manifesti a Ebbing, Missouri: recensione del film di Martin McDonagh

Festival di Venezia 2017: una giostra divertente, l’ultimo film di Martin McDonagh è un gioiello di scrittura impreziosito dalla prove di Frances McDormand e Sam Rockwell

pubblicato 4 Settembre 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 02:33

Prima di entrare ad Ebbing, Missouri, è inevitabile incrociare tre cartelloni pubblicitari in disuso. Mildred Hayes (Frances McDormand) vi si ferma davanti, li osserva, capisce che fanno al caso suo e si dirige verso l’agenzia pubblicitaria che li gestisce: cinquemila dollari sull’unghia, e questi sono solo per il primo mese. Il messaggio? Mildred pretende che la polizia faccia giustizia alla figlia trovando colui che l’ha stuprata e poi bruciata viva. Premessa torbida, alla quale però corrisponde una commedia nera con tutti i crismi, baciata da due prove d’attore ampiamente sopra la media, ossia quelle della McDormand e di Sam Rockwell. Martin McDonagh ha una sensibilità tutta sua, concettualmente britannica certo: perciò dialoghi impeccabili ed humor irresistibile, il tutto senza quasi mai sbavature, mantenendo costantemente il controllo sul del materiale così incandescente.

Three Billboards Outside Ebbing, Missouri peraltro sfiora, seppur tangenzialmente, temi analoghi a quelli trattati nell’altra dark comedy presentata alla Mostra di quest’anno, ossia Suburbicon, la cui menzione per il paragone chiarisce i limiti di uno ed i meriti dell’altro. Nel film di Clooney il grottesco è relegato ad episodi sporadici, essenzialmente slegati da una trama che non assimila mai fino in fondo questo tono; al contrario McDormand si dimostra ancora una volta uno che con la penna, prima ancora che con la camera, ci sa fare alla grande, non centrando a pieno, tutt’al più, un solo personaggio, vale a dire l’innocua moglie dello sceriffo Willoughby (Woody Harrelson), alla quale infatti vengono affidate poche battute di dialogo ed una presenza relegata al minimo, quanto basta per darle un senso nell’economia del racconto.

Dicevamo sopra in merito all’indole squisitamente britannica, e questo è senz’altro riscontrabile negli spassosi, brillanti botta e risposta che fungono più che da mero contorno. Ci sono alcune scene che rischiano già ora di entrare nell’Olimpo del cult, più per la spigliatezza delle battute che per quella della messa in scena, quest’ultima funzionale alle prime e non viceversa. Si tratta però di un grottesco che non è mai totalmente a briglia sciolta, anche in quei casi in cui effettivamente si è lì lì sull’orlo dell’inverosimiglianza, pericolo che a certe condizioni bisogna correre. McDonagh lo sa e prende le misure, non per niente Three Billboards parte come un whodunit per poi cambiare pelle, diventando qualcos’altro. In parte analisi di un luogo, quel Sud degli USA che ci viene costantemente restituito come retrogrado, razzista e chi più ne ha più ne metta, tutte peculiarità che qui non vengono negate ma per lo meno superate; in parte ensemble di profili assurdi.

A tal proposito, tipico del genere è proprio l’analisi dei comportamenti umani, con la scusa di seguire una o più storie diverse, perché in fondo a chi si occupa di dark comedy interessano più le persone e le loro imprevedibili reazioni agli stimoli circostanti. È così pure nel terzo lavoro del regista britannico, che in tal senso incalza come un rullo compressore, sottoponendoci un ventaglio variegato, contraddistinto di cose insolite, magari (volutamente) stupide, ma in ogni caso oltremodo accattivanti. E divertenti, certo. Un passo indietro rispetto al mood gelido di maestri del genere come i fratelli Coen o (ancor più) Roy Andersson, quello di McDonagh è un ritratto meno attento allo stile, che a questo punto si può dire al regista di In Bruges non freghi più di tanto.

E pur non rinunciando al turpiloquio, prendendosi gioco un po’ di tutti, l’ironia di Three Billboards Outside Ebbing, Missouri non è mai fuori posto, mai sciatta ma nemmeno troppo sofisticata, sebbene propenda per questa seconda fattispecie. Si ride anche solo per uno che prova ad accendersi una sigaretta, non senza motivo; le frasi stupide di un’ancora più stupida quantunque innocente diciannovenne; l’aggiramento di certi luoghi comuni anche laddove il processo potrebbe sembrare un pelo forzato, e via discorrendo. Ma soprattutto ci si scalda per la presenza scenica di due fuoriclasse come i sopracitati McDormand e Rockwell, due che s’incontrano davvero solo in quell’azzeccato finale: fino a lì non hanno fatto altro che rubare la scena a tutti quelli che gli stanno attorno. Molto si deve a questi due, alle loro maschere oramai interiorizzate a tal punto da non renderti più nemmeno conto se stiano recitando o meno. Altro punto a favore di un’opera pressoché irresistibile.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”8″ layout=”left”]

Tre Manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, USA, 2017) di Martin McDonagh. Con Frances McDormand, Woody Harrelson, Caleb Landry Jones, Abbie Cornish, Kathryn Newton, Peter Dinklage, Sam Rockwell, Lucas Hedges, Kerry Condon e John Hawkes. In Concorso. Nelle nostre sale da giovedì 11 gennaio 2018.