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120 battiti al minuto: Cineblog intervista il regista e sceneggiatore Robin Campillo

Dopo il successo a Cannes e la conferma quale film che rappresenterà la Francia ai prossimi Oscar, 120 battiti al minuto si appresta ad uscire nelle sale italiane. Cineblog ha avuto modo d’intervistare il regista Robin Campillo

pubblicato 2 Ottobre 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 01:29

Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes, coronato dalla decisione di mandarlo a Los Angeles per giocarsi le proprie chance quale Miglior Film Straniero ai prossimi Oscar. 120 battiti al minuto esce in Italia questo giovedì, 5 ottobre, e noi di Cineblog abbiamo avuto modo di scambiare due chiacchiere (che vorremmo fossero state almeno quattro) con il regista e sceneggiatore Robin Campillo. Prima di riportarvi la nostra intervista al cineasta francese, a voi un estratto della nostra recensione del film da Cannes.

Campillo non ha problemi a “sporcare” il proprio film, anzitutto riempiendolo di sangue, quantunque finto o ricostruito in post, come quando assistiamo ad una panoramica dall’alto della Senna, in cui scorre per l’appunto sangue anziché acqua. Ci accorgiamo, o quantomeno dovremmo accorgerci che qualcosa non va e che il regista ha lavorato bene ogni qualvolta che avvertiamo l’importanza, quasi la pesantezza del contatto; questo è infatti 120 battements par minute, un film di sangue e contatto. Prima di esplodere nell’amplesso sessuale, in quel rito che a certe condizioni non è facile vivere in maniera del tutto equilibrata, basta anche una mano sulla spalla oppure sul viso. Questo la dice lunga su chi oggi, ma forse da sempre, sono i veri outcast di ogni società, ossia i malati, specie quelli le cui malattie sono contagiose.

INTERVISTA A ROBIN CAMPILLO

Lei è sceneggiatore, regista e montatore, il che immagino le consente di avere un certo controllo sui suoi film. In 120 battiti al minuto, per esempio, si parla molto, non senza ragione peraltro, con un taglio quasi documentaristico. Potrebbe dirmi qualcosa sul processo?

Per me non è un documentario, sebbene lo stile di recitazione sia naturalista. Il film parte da ricordi personali, con la distanza che certi ricordi prendono dopo un certo periodo di tempo e con l’impressione che spesso danno anche di essere qualcosa di fabbricato, di costruito. Però per questo film, così come per il mio film precedente, la mia scelta è stata quella di andare contro quello che spontaneamente avviene quando si fa un film e cioè controllare ogni fase: controllare le luci, controllare la posizione della macchina da presa, controllare la recitazione, al punto tale che quando si batte il ciak tutti smettono di respirare, e si gira una scena come si fosse in apnea.

Ecco, io ho voluto fare l’opposto, cioè permette che ci fosse un respiro molto ampio, soprattutto nella fase iniziale delle riprese, che consente anche di costruire un rapporto di fiducia con gli attori. Per me la scelta degli attori rappresenta un momento fondamentale, dato che quasi tutto dipende dal trovare gli attori giusti per interpretare i personaggi; in questo caso il casting è durato nove mesi, dunque un periodo molto molto lungo e quando trovo gli attori giusti è come se io dimenticassi i personaggi che sono scritti in sceneggiatura e i personaggi diventassero loro, gli attori stessi. Quindi anche con il bisogno di apportare delle modifiche rispetto a quello che avevo scritto, ma con loro inizio a fare molte prove ed il mio modo di girare sul set, delle riprese lunghissime, con questi lunghi piano sequenza, con ben tre macchine da presa.

All’inizio della giornata, per quindici/venti minuti giriamo un primo ciak per far sì che tutti lasciamo andare la tensione e la paura di sbagliare. Perché inevitabilmente sbagliamo: c’è una macchina da presa che inquadra l’altra, per dirne una, e così via. A un certo punto gli errori non contano più perché li stiamo commettendo tutti; questo in modo tale che vi sia già l’impostazione della sequenza stessa. Questo fa sì che non sia assolutamente un film naturale: è un film che ha probabilmente tre livelli. Un livello è quello delle scene che si svolgono in anfiteatro, dove avvengono le varie assemblee, ed è uno spazio simile a un cervello, un laboratorio di pensiero, di scambio, di confronto sulle tematiche della lotta. C’è poi la dimensione delle azioni, delle iniziative dell’associazione stessa e per finire c’è la dimensione dei locali notturni, dove la parola non c’è quasi più e a quel punto sono i corpi che sono liberi di esprimersi.

In una recente intervista rilasciata all’Huffington Post ha avuto modo di dire che, malgrado il film tratti un tema di vent’anni fa, resta rilevante ancora oggi perché allora erano gli omosessuali ed il loro movimento ad essere presi di mira mentre oggi tale processo avviene ai danni dei mussulmani. E che perciò il vero problema in Francia è costituito da questa laicità eretta a religione.

È da parecchio tempo che in Francia, in particolare il discorso inerente alla laicità, viene strumentalizzato per colpire i mussulmani, al punto tale che oggi si assiste a posizioni di estrema destra che in qualche modo strumentalizzano gli omosessuali per condannare l’omofobia dei mussulmani; che per carità, può anche esserci in qualche caso, ma da lì a farsi baluardo della difesa degli omosessuali strumentalizzandoli per attaccare i mussulmani lo trovo profondamente ingiusto. Come pure una serie di movimenti antirazzisti, condivisibili per tanti aspetti, anche perché nati da chi viene toccato da questi atteggiamenti razzisti, che sono a favore della decolonizzazione della mente delle persone e che invece vengono additati a giudicati male né più né meno di Act Up Paris a suo tempo.

A Cannes ha tra l’altro tenuto banco la polemica tra gli esercenti francesi e Netflix, che ha portato il Festival a prendere delle decisioni ben precise. Cosa ne pensa a riguardo?

Sono per la difesa strenua della sala cinematografica perché per me i film sono fatti per essere visti in una sala cinematografica. Forse apparterrò ad una vecchia generazione, ma è un po’ il principio dei locali notturni e delle discoteche: è un contesto in cui uno è da solo pur essendo in mezzo ad altre persone, trovandosi peraltro in un ambiente per lo più buio. È un’esperienza simile ad una seduta spiritica, e trovo che non sia giusto vedere un film con delle interruzioni o facendo altro o comunque in un contesto diverso rispetto a quello della sala. È vero anche che in Francia abbiamo la fortuna di avere tantissimi cinema funzionanti e operativi, il che consente una grande diversità di film che possono uscire ed essere visti, com’è il caso del mio film. Un film difficile ma che grazie a questa struttura distributiva è riuscito già a staccare ottocentomila biglietti, il che non è facile. So anche che il modello economico dovrà necessariamente cambiare in futuro poiché è difficile riuscire a mantenerlo a queste condizioni ma credo che non si debba accelerare troppo il processo.