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Ready Player One: recensione in anteprima del film di Steven Spielberg

Un caos controllato, quello di Ready Player One. Steven Spielberg rende alla portata un tripudio di pop culture che, suo malgrado, dice molto sul nostro immaginario e su come stia influenzando la realtà

pubblicato 20 Marzo 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 22:08

Che significa pop? Quale la sua accezione se accostato al termine culture? Quali le ripercussioni su un mondo sempre più globalizzato, in cui un numero sempre maggiore di persone, nell’ordine di milioni e nei luoghi più disparati sparsi per il pianeta, attingono alle medesime fonti, leggono, vedono, ascoltano grossomodo le stesse cose? Quali dinamiche comporta una diffusione così capillare di personaggi, saghe, brand e quant’altro? Ebbene, Ready Player One presuppone queste domande senza però rispondere a nessuna di queste. Ed è voluto, nulla d’incidentale; semplicemente, riconosce il proprio target di riferimento e tenta d’instaurare un dialogo a cuore aperto con loro prima di tutti.

Di primo acchito può sembrare strano che uno come Steven Spielberg si cimenti in un progetto così esoterico per certi versi, a priori confinato entro un circolo nemmeno poi così nutrito come sembra, sebbene in rapida espansione nell’ultimo decennio. Poi però vedi il film e capisci perché Spielberg sia l’unico in realtà a poter affrontare una sfida del genere, per l’esatta ragione per cui certe tematiche le avremmo viste bene qualora maneggiate da gente come Zemeckis. Facciamo una pausa, però, soffermandoci un attimo su ciò di cui si parla.

Wade (Tye Sheridan) vive in una sorta di baraccopoli del futuro, anno 2045, un mondo in cui la realtà virtuale non è un vezzo per quegli avventurieri che per primi hanno avuto la ventura d’imbattersi nella motion sickness, bensì la normalità. OASIS è la realtà alternativa in cui tutti si riuniscono quando indossano i propri visori, un angolo immenso nel quale, come dice il nome stesso, concedersi ristoro rispetto ad una realtà, quella senza visore, che di attrattiva ne ha poca o addirittura nessuna. Siamo oltre la ludicizzazione del quotidiano, quel processo in cui ci si dà degli obiettivi con annesse ricompense per compiere le azioni più ordinarie: qui tutto è stato trasportato nel virtuale, oramai non ci si prende più nemmeno la briga di svolgere le mansioni più banali, se non quelle che la biologia, ultimo traguardo da superare, impone.

Ready Player One è incalzante, specie nel primo atto, ché di spiegare tutte queste cose ha poco tempo. Ed è tutto un susseguirsi di citazioni sotto forma di personaggi, rimandi trasversali et similia. Saturo all’inverosimile, non è facile barcamenarsi all’interno di questa congerie di pop culture visuale: sono per lo più film e serie TV, la nuova cultura classica, quel tipo di cose che abbiamo oramai introiettato anche laddove non le avessimo viste direttamente; fanno parte del nostro corredo esperienziale, segno della potenza di questa forma di comunicazione, con la quale riusciamo a relazionarci senza bisogno di “conoscerla”, nel senso di averla studiata in ogni sua parte, insomma senza un filtro consapevole. Ma a chi ci riferiamo quando scrivo “noi”? Ci arriviamo, un po’ per volta.

Si scopre che il creatore di OASIS, Halliday (Mark Rylance), morto di recente, ha lasciato degli easter egg, definizione nota ai videogiocatori, che sta ad indicare una sorpresa che è sotto gli occhi di tutti ma che solo in pochi riescono a notare. Chi trova i tre easter egg si prende le tre chiavi e con esse la proprietà in solido della piattaforma; insomma diventa proprietario a vita di OASIS. Va da sé che la multinazionale di turno non possa esimersi dal tentare la caccia con ogni mezzo necessario, dispiegando la propria forza al fine di accaparrarsi le tre chiavi. Ecco con chi Wade e soci devono combattere: Nolan Sorrento (Ben Mendelsohn), un CEO senza scrupoli che ha ben compreso quale e quanto potere conferisca il disporre di questa piattaforma. Chi comanda OASIS comanda sul mondo in buona sostanza.

E qui torniamo al «perché Spielberg». Ready Player One è infatti una sorta di ode al game over, che intende mandare in soffitta, o almeno questa è l’intenzione, lo stereotipo del nerd. Presa coscienza che oramai certe etichette non sono sufficienti neanche alla lontana a definire certe categorie, Spielberg adotta il proprio specifico piglio rivolgendosi a loro, i “nuovi nerd”: parlando la loro lingua, vezzeggiandoli, blandendoli, stordendoli, dunque facendoli divertire sulle sue montagne russe. L’unica discriminante potrebbe stare nell’accessibilità: vi sono due soglie anagrafiche, sotto e sopra le quali il film non è poi così “ricevibile”. Al contempo solo Spielberg poteva lavorare con e su questi limiti connaturati al progetto, e va detto che una cosa del genere non poteva essere più accessibile di così.

La frase manifesto «it’s not about winning, it’s about playing», condensa il senso di un testo che pone fine all’era del gioco in singolo, che per i profani significa sostanzialmente questo: giocatore, periferica di comando e pannello. Un tempo la socialità passava per quella così lì, ossia macinare record nei cabinati di bar e sale-giochi, mentre oggi a prevalere e quell’esperienza in multiplayer che già è premio a sé stessa. Dopo il già citato primo atto, infatti, Ready Player One diventa caotico, strabordante, proprio laddove spinge sulla necessità di unire le forze contro il nemico comune, leitmotiv di quello Spielberg che passa con inusuale disinvoltura dal particolare al generale e viceversa, raccontando sempre storie che riguardano i singoli, certo, ma che per farcela hanno bisogno del prossimo. Con Zemeckis avremmo senz’altro avuto un denso studio circa le implicazioni, una specie di saggio filmico sull’argomento, ma evidentemente l’intenzione era un’altra, ed allora Spielberg diviene l’unico in grado di filtrare tutto ciò, infondendo quei toni favolistici, rassicuranti, che gli sono propri.

C’è da riflettere su come i film a tema VR si siano evoluti nel tempo, proprio quando questa tecnologia perde sempre più l’aura futuristica per entrare nel nostro presente. Tron immaginava una realtà virtuale improntata su un minimalismo assordante, fatto di linee e spigoli, in accordo con la grafica vettoriale del tempo, quando davvero la virtualità era “altro” rispetto alla realtà, senza volerla in alcun modo replicare ma offrendosi appunto come alternativa. Poi arrivò Il tagliaerbe ad aggiustare un po’ il tiro, sebbene si sia ancora in un’epoca che risente di quel retaggio, fa strano scriverlo, essenzialmente primitivo. Lo shock, per certi versi, avviene lo scorso anno, con Valerian di Luc Besson, di cui abbiamo parlato su queste pagine: già qui si capisce che qualunque mondo si possa concepire, ebbene, questo sarà nove volte su dieci caotico, privo di vuoti, in altre parole, inabitabile.

Se i mondi che creiamo sono però basati sull’eccesso, vi è da pensare che non si sia più in grado di relazionarsi all’ordine, la geometria, e questo ha per forza di cose delle ripercussioni capitali sul nostro modo di pensare e perciò di agire. Il futuro ricostruito in Ready Player One non è poi così futuristico come appare, per esempio, in Minority Report, il che è di per sé un messaggio; la forbice tra ciò che eravamo in grado d’immaginare e ciò che ci circonda non è mai stata così stretta ed allora il monito di Spielberg, per quanto naif, sembra più un urlo strozzato, il massimo che si possa dire rispetto a una piega che diventerà sempre più inevitabile quanto più si farà a meno di ragionarci sopra.

Basti pensare all’accoglienza, incensante rispetto a quei capisaldi nei quali un certo pubblico (critici inclusi) può rispecchiarsi, vedere il proprio percorso di formazione e sorridere al tempo stesso commuovendosi. I problemi sorgono allorché tale livello resta precluso, per cui i paletti ai quali ho alluso poco sopra quando ho menzionato le due soglie – ma ce ne sarebbero delle altre, che coinvolgono tutti coloro che, pur rientrando nella fascia d’età “giusta”, sono riusciti a restare impermeabili ad una cultura di questo tipo.

Dov’è Spielberg, dunque? Beh, come già accennato, un film del genere sarebbe stato irricevibile per il grande pubblico, pressoché inservibile ai teorici, senza l’impronta netta di chi l’ha diretto. Perché sì, quando il rimando spinge forte sul cinema, solo Spielberg, anche in virtù dell’ammirazione e del rapporto che lo lega a Kubrick, poteva uscirsene con quella parte su Shining, che è un po’ making of, un po’ lezione, altro aspetto smaccatamente post-moderno, che va perciò oltre l’opera, come coloro, e sono sempre di più, che acquistano DVD e/o Blu-Ray per i contenuti aggiuntivi più che per il film in sé. Se vi siete quindi mai domandati dove andassero a finire quei litri e litri di sangue che escono dall’ascensore, eccovi serviti: Spielberg cambia prospettiva e finalmente mostra cosa c’era dietro quella dannata macchina da presa, dissacrando ma al tempo stesso amplificando, matrice appunto del post-moderno più spinto. E come la realtà virtuale che già oggi possiamo sperimentare noi stessi, anche Ready Player One, poco importa quanto ci s’impegni per fare diversamente, non può essere alla portata di tutti: c’è chi ha nausea, chi non sa cosa fare, chi si perde. Nessuno però può fare a meno di meravigliarsi.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”8″ layout=”left”]

Ready Player One (USA, 2018) di Steven Spielberg. Con Tye Sheridan, Olivia Cooke, Ben Mendelsohn, T.J. Miller, Simon Pegg, Mark Rylance, Hannah John-Kamen, Lena Waithe, Julia Nickson e Kae Alexander. Nelle nostre sale da mercoledì 28 marzo 2018.