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Cannes 2018, Solo: A Star Wars Story – recensione del film di Ron Howard

Festival di Cannes 2018: mai come in Solo la nostalgia si rivela insufficiente per dare senso ad un’operazione da cui viene fuori un prodotto pregiato all’esterno ma internamente vuoto

pubblicato 15 Maggio 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 20:16

Solo: A Star Wars Story comincia come un film incentrato su quel mascalzone del suo protagonista deve cominciare, ossia con quest’ultimo che se la dà a gambe per un debito non corrisposto. Han (Alden Ehrenreich) è un giovane che aspira a diventare un pilota, e non gli manca l’arroganza e la sfacciataggine, oltre che una buona dose di confidenza in sé stesso per riuscirci. Al momento, insieme a Qi’ra (Emilia Clarke), sta scappando dopo aver rischiato di rimetterci la pelle. I due sono quasi al sicuro, oramai è fatta… ma Qi’ra viene catturata e a Ian non resta che prometterle che tornerà a prenderla.

Movimentato, verrebbe da dire corretto, il prologo stringatamente riassunto sopra non vanterà virtù speciali ma di certo non è afflitto da chissà quali difetti. Un film che fa della fuga uno dei suoi principali leitmotiv, in questo secondo spin-off dopo Rogue One si corre da una parte all’altra, s’insegue e si viene inseguiti, adottando un po’ quelli che sono i codici dell’heist movie, quale per certi versi il film di Ron Howard è. Ecco, Howard. È nota la trafila che l’ha portato dietro la macchina da presa a lavori già in corso, il che non è certo la condizione ideale, per chiunque. E chiunque, “da fuori”, ritenesse di poter discernere con discreta certezza cosa e in che termini questo passaggio di testimone abbia inciso sarebbe un illuso; limitiamoci però a prendere atto della cosa e lasciamo parlare appunto il risultato finale.

Un prodotto che è espressione di un cambiamento oramai consolidato da un po’ e che non sembra affatto reversibile di qui a breve. Mai come in questo capitolo, dalla riapertura delle danze con Il risveglio della Forza, si avverte la difficoltà, lo smarrimento che deriva dal dovere a tutti i costi cavare qualcosa a posteriori, dopo aver stabilito che quel determinato progetto si farà. Un arrancare che, sì, d’accordo, non toglierà nulla al passato, come tanti vanno ripetendoci a mo’ di mantra da anni, ma che comincia a farsi, consentiteci il termine, dissacrante. Mai come con Solo: A Star Wars Story si fa strada l’idea che a ‘sto giro davvero non ci fosse modo di farcela, che le forzature non sempre possono essere raddrizzate quel tanto che basta per renderle passabili.

Non voglio entrare nel merito della diatriba tra i puristi del «non toccare o ti sparo» e quelli del «ma lasciate fare, tanto la Trilogia originale non ve la tocca nessuno», però è inevitabile che un qualsiasi ragionamento sulla resa o meno di questa operazione finisca per andare a parare lì. Nel processo che porta alla terza Trilogia, così come agli spin-off, non è ancora emersa davvero l’esigenza di “attualizzare” Star Wars, di sfornarne uno che vada bene per quest’epoca, per questi spettatori, che eppure ne potrebbero avere bisogno. E credo si debba cominciare a pretendere con più risolutezza, fan a parte, che non basta che di volta in volta un nuovo capitolo sia accettabile, che diverta, intrattenga e via discorrendo. Non si tratta di evocare i massimi sistemi, ma dov’è la grandiosità, il senso di un mondo con un’eredità oltremodo gravosa?

Recensendo Gli ultimi Jedi abbiamo alluso proprio a questo limite a priori, di cui appunto Episodio VIII non rappresenta, suo malgrado, una conferma. Ed allora come adesso la domanda a cui rispondere rimane la stessa: a quale esigenza deve rispondere uno Star Wars oggi? Ma soprattutto: può rispondervi sempre e comunque? Anche Solo, per carità, è un lavoro fatto con criterio, sebbene gestito all’apparenza con un pelo più di approssimazione, e in generale un blockbuster che starebbe pure in piedi. Cosa c’è che non va allora? C’è che è inutile limitarsi a soppesare le singole componenti quando ad uno Star Wars (discorso che si può estendere a tutti i film, certo, ma qui è diverso) manca la cosa più importante di tutto, ossia un cuore. Bisogna prenderne atto: Solo non ce l’ha. Si saprà anche muovere discretamente Ehrenreich, qualche passaggio colpirci o addirittura coinvolgerci (e questo accade più di rado), ma se manca quella cosa lì, mi spiace, è stato tutto tempo perso.

So che nella natura del polpettone hollywoodiano è inscritta la necessità di essere quanto più trasversale possibile, ma se la conseguenza è concepire i film con squadra e righello allora è inutile discutere. Solo è un film sorprendentemente vuoto, un guscio pregiato che disegna fantasmi perché non si rivela all’altezza nemmeno di evocarli. L’escapismo, quell’anelito all’avventura che un episodio dedicato a Ian Solo deve inglobare, l’humor contenuto che non ubriaca bensì riscalda, sì, sono tutti elementi che in qualche modo si possono pure applicare. Il problema è che qui non si tratta di aggiungere o togliere ingredienti ma di mescolare, di non farci nemmeno accorgere che certe cose ci sono, a tal punto dovremmo essere presi dal racconto, rapiti dalle immagini, risucchiati da quel mondo lì. Ed invece si resta sempre a distanza, né potrebbe essere diversamente, perché Solo è uno Star Wars che vuole farsi tutt’al più guardare prima che farsi vivere; vuole così perché a conti fatti consapevole di non potere aspirare a più di questo.

Ci sono riferimenti, si avverte un sussulto al primo incontro tra Han e Chewbacca, quando si (ri)sale per la prima volta sul Millennium Falcon, quando Lando fa il brillante oppure s’improvvisa spalla del protagonista negli intermezzi comici. Sì, tutto carino, ma appunto, niente di più. Gli elementi da Star Wars perciò ci sono, vi diranno alcuni. Bravi, fin qui è facile: a quei livelli, poi, vorrei ben vedere. Ma come sono stati messi insieme? Si è dato vita a qualcosa che ha un’identità, che vive di vita propria, che respira, che insomma giustifica la propria esistenza agli occhi del mondo e dello spettatore? Queste sono le domande a cui d’ora in avanti si dovrà rispondere, e male se non abbiamo adottato questo specchietto pure prima. Non se ci si diverte, se quello assomiglia a quell’altro o se viene mantenuta una generica coerenza con l’originale.

Perché il punto sta lì, ossia nel fatto che l’eventuale coerenza, narrativa così come filologica se vogliamo, non basta a riscattare un progetto che deve regalare molto di più, aspirare all’eccellenza e niente di meno di questo. E si badi bene, non è un discorso da fan, simili considerazioni perciò dettate da una presunta chiusura che non ammette repliche. E allora dirò di più: basta col ricatto della nostalgia. Si mandi tutto a quel paese e ci s’inoltri in quella rischiosa spedizione che, chi lo sa… magari il Guerre Stellari dei giorni nostri potrebbe pure farcelo scovare.

Star Wars è di tutti ma un po’ di più di chi ne detiene i diritti, che perciò, a ragion veduta, è libero di farci ciò che preferisce. Quest’ultima affermazione troverà discordi molti, ma è un dato di fatto incontrovertibile. Come deve diventarlo da parte nostra, il pubblico, l’assoluto rifiuto di questa logica al ribasso, che ritiene di aver portato a casa il risultato qualora riuscisse ad evitare una brutta figura. Ma è già una figura magra quando si riesce magari a fare un film discreto senza però riuscire ad infondervi la cosa più importante, ossia un’anima.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]

Solo: A Star Wars Story (USA, 2018) di Ron Howard. Con Alden Ehrenreich, Woody Harrelson, Emilia Clarke, Donald Glover, Thandie Newton, Paul Bettany, Joonas Suotamo, Phoebe Waller-Bridge, Warwick Davis e Clint Howard. Nelle nostre sale da mercoledì 23 maggio 2018. Fuori Concorso.

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