Home Recensioni Midsommar – Il villaggio dei dannati, recensione: l’horror fin troppo educato di Ari Aster

Midsommar – Il villaggio dei dannati, recensione: l’horror fin troppo educato di Ari Aster

Ritualità e relazioni di coppia per il nuovo Ari Aster, che in Midsommar rimane sulla superficie e dell’una e delle altre, seppur con innegabile ancorché mal riposto talento

pubblicato 24 Luglio 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 17:55

È sera inoltrata e Dani (Florence Pugh) non sta bene. Piange, manda messaggi alla sorella, si confida col suo ragazzo, Christian (Jack Reynor), ma qualcosa non va. Il giorno dopo si scopre che la sorella si è suicidata, portando con sé pure i genitori, cosicché la già instabile Dani deraglia del tutto, subendo un trauma che si trascinerà per mesi. La soluzione, o parte di essa, sembra essere quella d’infiltrarsi in un viaggio che Christian ed alcuni suoi amici hanno pianificato da tempo. Pelle, uno di questi amici, è un ragazzo svedese cresciuto in una comune situata nella parte più a Sud della regione del Norrland. Tra il disappunto di alcuni di loro, Dani si unisce al gruppo e si reca in questo villaggio in cui il tempo sembra essersi fermato; lì scoprono, un po’ per volta, che c’è di più di ciò che si vede.

Dopo gli elogi per Hereditary, ad Ari Aster viene concessa una libertà non comune fino a qualche tempo fa, di cui però di recente anche altri registi, che più o meno operano sullo stesso piano, hanno di recente beneficiato – viene subito da pensare a Robert Eggers, il cui The Lighthouse è un rischio bello e buono, sempre nel solco di una nicchia non così angusta, verrebbe da dire, nonostante tutto, quasi mainstream, ma che nondimeno osa. Nell’accostarmi a Midsommar mi sono tornate in mente, potenti, le parole di David Foster Wallace: «il problema con la tecnica è che attira troppa attenzione su di sé, finendo con l’assumere il peso più rilevante nell’opera».

Non una critica tout court alla tecnica, o per meglio dire, al tecnicismo, tanto più che lo stesso Wallace, qualche secondo dopo, si definiva particolarmente dotato su tale fronte. Ad ogni modo, qui ne prendo spunto in quanto utile al fine di contestualizzare fino a che punto questo secondo film di Aster si risolva in un buco nell’acqua. E lo fa quasi consapevolmente, tendendo ad un esito così debole. Va dato atto al regista circa il tentativo di non fossilizzarsi su formule o contesti familiari, proponendo non tanto un horror diverso quanto, almeno nelle intenzioni, originale. Ecco, sta appunto nell’anelito a tale originalità che qualcosa si perde irrimediabilmente, come se ad Aster stesse più a cuore prendere le distanze anziché mettere insieme una serie di eventi.

Non è lo stile, men che meno la forma, quanto l’esibizione, il voler a tutti i costi estetizzare un processo a cui viene applicato un lavoro di cosmesi a livello però superficiale. Non esibizionismo, quasi che da questa parte si voglia a priori mettere in cattiva luce certo atteggiamento; non bisogna infatti dimenticare che questi nuovi, giovani registi, dei quali tutto si può dire fuorché che difettino in talento, si trovano nella fortunata ancorché gravosa situazione di voler/dover imporre la propria voce nell’ambito di un contesto che appare saturo (di riferimenti, d’idee, di critiche etc.). Solo così è possibile comprendere come e perché operazioni come Midsommar si pongano in questa linea di confine tra il rischio e la scommessa fine a sé stessa.

Un equilibrio difficile da mantenere, a cui, per tornare ad Eggers, in The Lighthouse si corrisponde, mentre qui ci si relaziona in maniera forse non smodata, ma a cui un certo equilibrio manca. Giunto in Svezia, il gruppo di studenti americani, e la vicenda con loro, entra in questa sorta di trance indotta, inizialmente mediante alcune droghe. È la fase successiva, l’ingresso nel mondo di Midsommar, fatto di riti e dunque leggi antiche, pre-cristiane verrebbe da dire, sacrifici al modo in cui ce ne ha parlato in maniera forse definitiva René Girard. Aster è infatti abile nell’intercettare il leitmotiv fondante del suo racconto, ossia la violenza, tema ancestrale, che effettivamente si presta a dismisura per qualunque racconto sul grande schermo.

Dopodiché lo trivializza, in buona sostanza perché non lo sorregge con un racconto che sappia ammaliare nella misura in cui lo si cerca di fare attraverso inquadrature e movimenti di camera più eleganti, in alcuni casi addirittura raffinati, che però servono solo a distrarre da una storia che, poco alla volta, va sgonfiandosi. Costruisce discretamente Aster nella prima parte, finché non arriva il momento in cui giustamente gli tocca giocare a carte scoperte, il mistero di questo inquietante villaggio finalmente manifesto, ed allora arriva la parte più complessa. Da qui in avanti Midsommar gira un po’ su sé stesso, a dispetto di alcune trovate interessanti, in primis ambientare il tutto in un contesto diurno, il che effettivamente avrebbe potuto contribuire a rendere gli eventi ancora più disturbanti.

Eppure nemmeno questo basta, anzi, per certi versi finisce con l’amplificare quel senso di vuoto dal quale è difficile venir fuori. Non saprei dire se l’intoppo si sia verificato alla luce del tentativo di rendere quanto più accessibile una storia dalle premesse ostiche; quel che appare più chiaro è che Midsommar resta a metà strada tra l’intervento arty e l’horror alla portata, inglobando per lo più i difetti di entrambe le dimensioni. Questa indecisione si rivela perciò decisiva, anche perché si assomma ad un’impalcatura narrativa volutamente ridotta, che deve vivere di momenti, scene forti su cui si fa pressoché totale affidamento.

Senza contare quei passaggi in cui si cerca di stemperare i toni, modulando il tutto sulle frequenze di un humor anch’esso scomposto, non perché eccessivo ma perché mal gestito, tanto che non si è nemmeno così sicuri che in certe scene si volesse davvero far sorridere. Ecco dunque l’impressione, ahimè soverchiante, di un film in cui Aster o esercita troppo controllo o ne esercita troppo poco, a seconda dei momenti. Magari la confezione, sempre più patinata per questo genere di produzioni, finisce col non aiutare. Senonché, come fin qui evidenziato, ciò che impedisce a Midsommar di fare il salto è proprio questa sua indulgenza verso sé stesso, con ben oltre due ore a disposizione che però si rivelano a malapena sufficienti a sfiorare sia il contesto, contraddistinto da culti locali aberranti, sia l’altro tema principale, che è appunto il rapporto tra Dani e Christian.

Ce ne vuole infatti per convincerci che vi sia davvero qualcosa da dire su questa relazione sfaldata in partenza, più un pretesto per accompagnare ciò che evidentemente interessa di più ad Aster, ossia perdersi in questo scenario onirico e alienante, senza però lasciarsi mai davvero andare. A dispetto dei presupposti, infatti, Midsommar si rivela insolitamente innocuo, proprio nella misura in cui deve o vuole adeguarsi a certi standard; per cui ok gesti e ritualità ma solo nella misura in cui offrono soluzioni accattivanti rispetto a come possono essere girate; bene questa comune i cui membri inquietano, ma non discostiamoci troppo dal profilo da setta che pullula d’invasati, non a caso l’anonimato e l’inconsistenza degli abitanti del villaggio rappresenta una delle componenti che remano contro la resa di uno scenario a cui, da un certo punto in avanti, manca del tutto la suspence. Tutti elementi che cozzano profondamente con l’ambizione di Aster, frustrata dall’impossibilità di andare oltre una tecnica senz’altro sopraffina, e a più livelli, ma non per questo sufficiente.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]

Midsommar (USA, 2019) di Ari Aster. Con Florence Pugh, Jack Reynor, William Jackson Harper, Will Poulter, Vilhelm Blomgren, Archie Madekwe, Julia Ragnarsson, Björn Andrésen, Anna Åström, Henrik Norlén, Liv Mjönes e Louise Peterhoff. Nelle nostre sale da giovedì 25 luglio 2019.