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El paìs colorato di Pedro Almodovar

Tutti i colori di Pedro

pubblicato 24 Marzo 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 16:36


Il “paese” di Almodòvar è un universo cinematografico dominato dagli eccessi, incendiato dalle braci della passione e popolato da creature ai confini dell’essere e del sesso. Ma soprattutto è un luogo abitato dal colore, da quelle tinte accese e cangianti stese con follia e generosità lungo chilometri e chilometri di celluloide, gli stessi che hanno significativamente traghettato il suo autore dall’oscurantismo della dittatura franchista fino alla borghese maturità dei tempi attuali.

Una tavolozza cromatica così espressiva che chiunque, dopo aver visionato anche solo parte della sua filmografia, potrebbe già leggervi dentro la storia del regista de La Mancha e, in filigrana, quella del suo paese in costante metamorfosi sociale ed emotiva.

Perché che cosa sono in fondo Pepi, Lucy, Boom o Labirinto di Passioni se non urgenti, benché stilisticamente grossolane, dichiarazioni di libertà di chi, fino al 1975 (anno della morte del Caudillo e fine della dittatura), non poteva nemmeno dichiarare la propria identità sessuale?

Quadri grezzi ed imperfetti certamente ma sui quali, passandoci sopra i polpastrelli, è possibile sentire ancora i grumi di colore dettati dalla fretta e soprattutto dall’impazienza di urlare al mondo, anche a rischio di autodistruggersi, l’autenticità fin lì negata. Tutto quel sottobosco di drag, gay, ninfomani, madri e figli morbosamente interconnessi o semplicemente di donne sull’orlo di una crisi di nervi, viene alla luce per rivendicare a chiunque non (sol)tanto che essi esistono, ma anche che esiste un’unica legge comune a loro come ai benpensanti, quella del desiderio.

Ecco la vera rivoluzione sociale del cinema di Almodòvar, ben distante da qualsiasi esplicito affondo sulle classi (alla Bunuel per intenderci) e saldamente distaccata da ogni riferimento alla storia. Sono i sensi, patrimonio comune dell’intera umanità, a condurre l’insurrezione perchè soltanto questi sono deputati a comandare anche sulla (ir)razionalità delle convenzioni.

Una filosofia anche cinematografica la sua, evocata senza ipocrisie o sottintesi già dal nome della sua prima e unica casa di produzione: El Deseo. E se sono il desiderio e la frenesia a guidare il gioco allora è inevitabile che i colori, primo approccio “sensoriale” al suo discorso, abbiano l’incarico di instaurare una certa chimica con lo spettatore.

Così si spiegano le sue visioni traboccanti di cromatismi e in costante ricerca di contrasti audaci, con inquadrature che si divertono ora ad accarezzare la leggerezza pop degli intrecci (Donne sull’orlo di una crisi di nervi), ora a seguire i flussi oscuri del melò più psicotico (Legami!), o infine a lusingare l’estetica delle soap-opera per poi negarla, quasi subito, attraverso gli imprevedibili tornanti del dramma (e quell’ombrello colorato tenuto da Cecilia Roth sotto la pioggia cupa di Tutto su mia madre vale più di mille spiegazioni).

E’ azzardato a questo punto pensare che l’estetica almodovariana si serva del colore per arrivare ad esprimere la sua etica? A giudicare dal progressivo ma misurato stemperarsi del furore degli anni ’80 e ’90 in favore di un melò quasi sirkiano (mirabilmente stilizzato in Parla con lei), parrebbe di sì.

Accade così che nella sua ultima produzione i colori rientrano più diligentemente dentro i margini mentre i contrasti sono governati da una diversa maturità. I grumi non sono più percepibili e i polpastrelli adesso scorrono sulle superfici lisce di pellicole composte e levigate come una stampa, perfetta magari per essere esibita in un salotto borghese e radical-chic ma certamente lontana dalle “sporche” e scomode avanguardie degli esordi.

Del resto non c’è più una movida sotterranea ed in ebollizione da raccontare quanto il suo avvenuto incardinamento nella società. Fortuna tuttavia che i film sappiano ancora emozionare (Volver) o graffiare con moderata indulgenza (La Mala Educacion) e infine affondare il “bisturi” dei generi in modo ancora sorprendente (il sottovalutato La pelle che abito).

Oggi, con quest’ultimo Gli amanti passeggeri, il regista sembra voler rifare sé stesso rivestendosi del camp che ne ha contraddistinto la produzione degli anni ’70 e ’80. Noi lo attendiamo ansiosamente al varco (o, meglio, al check-in), ben consapevoli che magari questa sua nuova e promettente “tela” non sarà la più autentica fra le sue.

Ma se la vera autenticità -come diceva Agrado in “Tutto su mia madre”- non sta nell’essere come si è, ma nel riuscire a somigliare il più possibile al sogno che si ha di se stessi, allora vuol dire che il buon Pedro sta ancora sognando. Un po’, naturalmente, anche per noi.