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Mank, recensione del film di David Fincher

Un’ode a una stagione, passando per un’altra Hollywood, diversa ma non troppo. Mank di David Fincher si risolve per lo più in tale presupposto

15 Dicembre 2020 21:55

C’è una linea di dialogo rivelatoria, a volere starci attenti. Un tizio della MGM si rivolge a un gruppo di sceneggiatori e registi, tra cui Herman Mankiewicz, sostenendo la necessità di riportare le persone nelle sale cinematografiche. Eh, ma come? «Proiettate i film per strada», risponde Mank, protagonista di questa storia. Spiegheremo più avanti.

Il film di David Fincher si basa una sceneggiatura scritta dal padre Jack, incentrata sulla vicenda che ha portato alla stesura della sceneggiatura di Quarto Potere. Per chi guardasse a Mank come a una sorta di accurato retroscena, sappia che la tesi di fondo, ossia che la sceneggiatura appartenga in realtà totalmente a Mankiewicz, è in larga parte basata su dei saggi di Pauline Kael, nota critica del New York Times, pubblicati nel 1971 e tesi a smitizzare la genesi di uno dei film più grandi di sempre. Tesi oramai accantonata, poiché sostanzialmente smontata (di recente è stato pubblicato un video interessante a riguardo), meglio guardare alla premessa di Mank come all’ennesimo tentativo di girare un film sul fare film.

Operazione senz’altro non facile, Mank ritengo vada più accolto come una sorte di ode, l’ennesima, verso una stagione. Si pensi all’inappuntabile bianco e nero, concepito come tale già a partire dall’illuminazione, così come al sonoro, che di tutta prima tende un po’ a straniare; è tutto un replicare certe condizioni, ottenendo un risultato analogo a quello dei film dell’epoca, seppur ovviamente migliorato – una specie di attualizzazione tra il restauro e l’introduzione di tecniche che afferiscono a un linguaggio che allora non si era ancora sviluppato, con particolare riferimento al montaggio, da un punto di vista squisitamente tecnico notevole. Non si creda che tale approccio passi sotto traccia, anzi, il leggero straniamento di cui sopra è senza dubbio voluto, forse pure per rimarcare la natura fittizia di questa storia, oramai relegata a leggenda, una delle tante in quel di Hollywood.

Ciò che non convince a pieno è però in primis la struttura, con questo saltare indietro e in avanti, al fine di ricostruire il percorso che ha condotto il protagonista al ritiro forzato nel deserto del Mojave per andare incontro agli schiribizzi di un ventiquatrenne cui furono date le chiavi del costoso parco giochi, e che ora pretendeva di fare tutti fessi, in un mondo che, di lì a poco, l’avrebbe al contrario fagocitato. Quest’alternanza cronologica, di per sé instabile, si rivela in alcuni casi finanche limitante, tanto che per quasi metà film è come se fossimo davanti a un collage.

C’è persino un po’ di politica, com’è inevitabile che fosse, dato che a metà degli anni ’30 lo scontro tra due visioni del mondo è ancora nella sua infanzia, e le vicende di Mank servono a loro modo come introduzione a ciò che nel dopoguerra avrebbe condotto al maccartismo, fenomeno che toccò molto da vicino l’industria dorata. In tal senso Mankiewicz rappresenta se vogliamo una sorta di proto-martire, un emarginato ante litteram da un sistema che ha fatto il possibile per tenere a distanza il nemico per eccellenza di allora, ossia il Comunismo.

Di certe produzioni, di quel periodo insomma, Mank conserva anche una certa brillantezza nei dialoghi. Senonché quell’indovinare sempre il botta e risposta, il far dire sempre la frase ad effetto giusta al momento giusto, a una certa tende a lasciare almeno un pizzico interdetti, e non per una mera questione di verosimiglianza, ché, come detto, di certe istanze non vi è traccia già in premessa.

Non dispiace insomma quest’ultimo lavoro di Fincher, ma al contempo non si discosta poi molto dalla media dei tentativi di coloro che, prima di lui, hanno provato ad approntare un discorso, credibile o meno, sulla Hollywood che fu. Chi scrive, in certe opere tende quasi sempre ad apprezzare il loro far luce su argomenti che magari vale la pena approfondire altrove, quantunque risulti fondamentale che il film funzioni. Ecco, Mank funziona per lo più a tratti, senza andare mai oltre; e se regge lo fa principalmente per le performance dei suoi interpreti (tra le scene più riuscite, da segnalare c’è senz’altro quella tra i fratelli Mankiewicz e Louis B. Mayer, in giro per gli studios della MGM).

Prima di chiudere tocca però tornare a quella battuta di Mank riportata in apertura di recensione. Non so se il diretto interessato l’abbia o meno pronunciata, ma è ironico, ancor più se involontario, riportare all’attualità un’uscita del genere. Come se Netflix intendesse scrollarsi di dosso l’etichetta, a dire il vero forzata, di ammazza-sala, come se lo streaming l’avessero inventato loro oppure si esaurisse in toto in questa pratica la cosiddetta «crisi della sala». La risposta ce la dà Mank: la gente non va al cinema? Poco male, proiettate i film per strada: che nel ventunesimo secolo la rete abbia sostituito la strada cambia poco o nulla.