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Torino 2019, Il grande passo, recensione – dal Veneto alla Luna

Stefano Fresi e Giuseppe Battiston protagonisti dell’opera seconda di Antonio Padovan. Leggete la nostra recensione de Il grande passo

pubblicato 25 Novembre 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 15:25

Quanto costa sognare? Poco? Molto? Niente? O forse tutto. Il grande passo di Antonio Padovan è un film piccolino, che vuole dire forse una cosa sola; ecco, a differenza di tanti altri, ci riesce. Non solo. Vuole parlare a tutti, ché forse è proprio ciò di cui in questo momento c’è bisogno, ed allora il suo non è film che vuol farsi bello, pur sapendo che, in mancanza di certe sfumature, la complessità di qualunque fenomeno viene meno. Nel film Dario (Stefano Fresi) possiede una ferramenta a Roma, mentre Mario (Giuseppe Battiston) vive in campagna, vicino Rovigo, dove l’ha combinata grossa. Per riuscire in un’impresa come minimo insolita, ha abbrustolito parte del terreno di un vicino, cosa di cui, insieme ad altre, deve ora rispondere davanti alla Legge. Mario non ha nessuno, perciò all’avvocato della zona non resta che contattare Dario, fratellastro da parte di padre, il quale, seppur riluttante, alla fine decide di prendere un treno per il Polesine.

L’impresa in questione, circa alla quale per un bel po’ Dario resta all’oscuro, è semplice ancorché assurda: Mario sta costruendo una nave spaziale con la quale intende arrivare sulla Luna. Uno immagina a questo punto una storia intrisa d’ingenuità, forzata, se non addirittura stupida, col risultato, come spesso accade, di sconfinare nella trivialità più becera. Padovan, invece, riesce a contemperare quella che in fondo pare proprio una necessità, ossia girare una commedia alla portata, innestando una traccia che, per quanto non possa a tali condizioni essere esplorata più di tanto, emerge bene e si percepisce tanto quanto.

Infatti il merito più significativo de Il grande passo mi pare stia proprio nel riuscire a divincolarsi da una certa, congenita mediocrità sotto il cui manto vengono concepiti e sviluppati una mole consistente di commedie nostrane. Ed è un lavoro i cui ingranaggi, giustamente, non si vedono, per cui certa semplicità rischia di passare inosservata, oppure peggio, di venire fraintesa. Il rapporto tra i personaggi di Fresi e Battiston, che insieme sono una coppia notevole; la testardaggine di Mario anche a fronte della follia che porta avanti; l’affabilità di Dario, il suo senso di responsabilità. Insomma, tutti elementi che fanno leva una volta tanto su temi universali, verrebbe persino da dire “belli”, bilanciando la riflessione con un approccio che renda il tutto accessibile.

Certo, manca ancora una forma autonoma e al contempo ben definita, tale da consentire di non prendere a prestito un immaginario familiare, sia nei modi che nei contenuti; da un altro canto, tuttavia, immergere un incipit del genere nell’ambito di una commedia che nei toni, per ovvie ragioni, ricorda certo Mazzacurati, contempla già un certo rischio, rispetto al quale Padovan si muove abbastanza bene. Fin qui sembra però che a trainare il film sia il messaggio, o i messaggi, il che è vero in parte e non è affatto un male; i personaggi, prima ancora che gli interpreti, giocano un ruolo determinante.

Si è infatti, per dirne una, talmente assorbiti dall’idea di questo contadino che ha dedicato la propria esistenza ad una missione così inverosimile, che per forza di cose passa in secondo piano non tanto Dario, quanto le sue aspettative, ciò che lui desidera. Ed è qualcosa di apparentemente più minuscolo, decisamente più alla portata, eppure, in un contesto del genere, non meno difficile da conseguire rispetto allo sbarco sulla Luna. Non intendo fornire una descrizione specifica di questa cosa, evidenziando tuttavia che si ha a che vedere con gli affetti, il sentirsi unito a qualcuno, dunque a qualcosa. Le parabole di Dario e Mario sono come due rette che si sfiorano senza però mai incontrarsi, il primo rivolto al futuro, il secondo in cerca di rimediare al passato.

E già da questo piccolo, forse anche un po’ schematico rapporto, vengono fuori elementi corroboranti, sempre seguendo la via maestra del volare basso, sebbene rispetto alla premessa narrativa rischi di sembrare un controsenso. Convince insomma come Padovan riesca a far dire e fare ai personaggi verità oramai talmente imbevute di retorica (anche se qui non sempre del tutto dribblata, va detto) ché non le reputiamo più tali. Colpisce questo seppur vagamente dimesso tentativo di opporre resistenza alla disillusione imperante, per quanto attraverso i modi di una commedia regionale persino, calata cioè in un ambiente preciso, facile da individuare per chi conosce almeno un po’ il nostro Paese. Non un antidoto, né un rimedio, ma che si (ri)cominci a scrivere storie che invoglino a credere, a sperare, ricordando al contempo, anche in maniera buffa, che sognare ha un costo, spesso molto alto, rappresenta un tentativo di per sé encomiabile. Ancor di più quando, rifuggendo tanto certa rarefazione, quanto il suo esatto contrario, ossia l’idiota banalizzazione, si riesce a tirare fuori una parabola di cui e con cui si riesce a sorridere.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”6.5″ layout=”left”]

Il grande passo (Italia, 2019) di Antonio Padovan. Con Stefano Fresi, Giuseppe Battiston, Flavio Bucci, Francesco Roder, Camilla Filippi, Vitaliano Trevisan, Roberto Citran, Teco Celio, Luisa De Santis e Pascal Zullino. Concorso.

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