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Vita di Pi: l’esotismo “americano” di Ang Lee

L’omaggio di Cineblog all’ultimo film di Ang Lee

pubblicato 23 Dicembre 2012 aggiornato 31 Luglio 2020 19:12


Si scrive controprogrammazione di Natale, si legge cinema d’autore. E’ la proposta, puntuale ad ogni festività di fine anno, fatta per tutti quegli spettatori cui poco importa di hobbit, cartoni e delle commedie nostrani.

Film più o meno impegnati, autori di peso, quando non “estremi”, e pellicole a moderato tasso politico e sociale: è questa la piccola “armata” che si presenta puntualmente durante le festività col compito di diversificare un’offerta altrimenti scontata e concedere anche al pubblico cosiddetto “intellettuale” qualche oasi dal puro disimpegno festivo.

Personalmente appartengo (come molti spero) a quella tipologia di spettatori cui piace “sgambettare” fra cinema alto, blockbuster e animazione (con l’unica eccezione di una certa commedia: neanche dietro accompagnamento coattivo del giudice potrei andare mai a vedere roba come “I soliti idioti 2”).

Per cui, fra una visione e l’altra de “Lo Hobbit” (attuale colpo di fulmine) e “Ralph Spaccatutto” farò di tutto per gustarmi l’ultimo Ken Loach, il Redford politico (che ormai, quanto a militanza cinematografica, si alterna a Clooney), “La bottega dei suicidi” di Patrice Leconte e naturalmente Vita di Pi, l’ultimo Ang Lee in versione stereoscopica.

Quest’ultimo in verità si presenta come prodotto abbastanza inconsueto per via della sua incerta collocazione fra racconto dal respiro autoriale e avventura baciata dalla tecnologia di ultima generazione. Ma del resto stiamo parlando di un regista non nuovo alle contaminazioni e che, opera dopo opera, ha cercato sempre di mantenere la sua impronta “esotica” anche in opere dichiaratamente hollywoodiane, proprio come si evince scorrendo la sua carriera e filmografia.
Impostosi all’attenzione del mondo con il delizioso “Il banchetto di nozze” e “Mangiare bere uomo donna” Lee, fin dai primi anni ’90, ha contribuito a spostare i riflettori sulla sensibilità e la freschezza del cinema taiwanese, sdoganando questa cinematografia presso il pubblico occidentale e quello d’oltreoceano in particolare.

L’America se ne accorge subito e non perde tempo ad adottarlo: quell’esercizio un po’ calligrafico che risponde al titolo di “Ragione e sentimento” è il primo frutto di questo connubio, ma anche il primo compromesso del regista con l’entertainment a stelle e strisce.

L’opera sembra essere infatti “forestiera” più per stile che per contenuti né risalta come il miglior film in costume degli anni ’90 nonostante l’osanna dei critici e la pioggia di nomination agli Oscar (non dimentichiamo che negli stessi anni si ignoravano capolavori come “L’età dell’innocenza” e “Ritratto di Signora”); tuttavia è anche spigliata e luminosa quel tanto che basta per consentire al regista di entrare a pieno titolo a Hollywood. Lui non perde tempo e arruola grandi nomi (Kevin Kline, Sigourney Weaver, Joan Allen) ma solo per sferrare il suo attacco alle basi stesse del sistema americano: la famiglia.

“Tempesta di ghiaccio”, secondo film di produzione a stelle e strisce, è il più cupo e disilluso epitaffio della famiglia americana (nonché il suo film migliore), in confronto al quale perfino “American Beauty” pare una satira disneyana: perché laddove Sam Mendes usava il coltellino, Lee invece adopera un bisturi ben più affilato e doloroso per compiere la sua spietata autopsia. Un affondo che però gli costerà non poco visto il successivo passo falso (sia a livello critico che commerciale) del successivo “Cavalcando col diavolo”.

Pagato lo scotto però Lee si riprende subito e conquista nuovamente gli States esportando in terra occidentale le coreografie aeree del wuxiapan: l’esotismo si sposa con un romanticismo “rivisitato” ad hoc per il grande pubblico e “La tigre e il dragone” diviene quel cavallo vincente destinato a fare cassa e incassare premi.
Ma se il gusto per la contaminazione fra oriente e occidente, tradizione e modernità, accompagnerà costantemente anche la produzione del primo decennio del 2000, gli esiti resteranno alterni: si va dal cinefumetto pop di “Hulk” al melò politicamente raffreddato di “Lussuria”, dramma più americano che cinese, fino ad arrivare al lieve e poco problematico “Motel Woodstock” che rilegge uno degli eventi fondamentali della cultura statunitense da una prospettiva più leggera ed innocente, quasi giovane (per non dire timida).

Se però i risultati dei primi e più “puri” esordi sono lontani, il meglio il regista lo dà, ancora una volta, quando ha il coraggio di ibridare i generi e le culture, facendo emergere la sua sensibilità assai meno convenzionale di quella americana. Come “Tempesta di Ghiaccio” sta al dramma così “ Brokeback Mountain” sta al melò e al western classico.

E’ con quest’ultimo film che il regista, in barba alle convenzioni cinematografiche americane, corrompe il genere “maschile” per eccellenza e dà vita ad uno splendido country-movie tutto affidato agli sguardi divoranti e divorati dei due protagonisti. Un film che ribalta il senso di paesaggi e personaggi e in cui il sentimento dei due protagonisti si riflette (paradossalmente) in quelle terre libere e selvagge: non più frontiere di libertà ed indipendenza come ai tempi di John Wayne, ma gabbie aride e senza sbarre in cui dissiparsi lentamente.

Un adattamento (da un racconto breve e di pura suggestione) così riuscito e intelligente da far sperare anche nel buon esito di “Vita di Pi”. Quanto a difficoltà di traduzione cinematografica infatti il romanzo del canadese Yann Martel sulla carta non è da meno, trattando una vicenda che, fra le pieghe del racconto di sopravvivenza, nasconde in realtà un intenso dialogo sulla fede vissuto in prima persona dal protagonista. Una sfida che, sulla carta, ha fatto tremare i polsi a parecchi autori cui era stata già proposta (Shyamalan, Cuaron, Jeunet) ma che Lee ha invece accolto con coraggio, portandola fino in fondo. Il risultato, già dal trailer, tradisce (almeno) una regia sicura e perfettamente padrona dell’effetto, unita ad una poesia di cromatismi che il 3D, con ogni probabilità, esalterà al meglio.

Confidiamo nella capacità del regista di andare oltre la pura meraviglia visiva e di offrirci, ancora una volta, la sua visione sensibile e inconsueta del mondo e magari della fede. Chissà che, durante queste feste, l’incontro fra il pubblico “colto” e quello più disincantato non passi proprio attraverso una pellicola così “meticcia” ed emozionalmente imprevedibile…