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Tutti Pazzi per Rose – Populaire: il trailer italiano

Deliziosa e sorprendente opera prima, Tutti Pazzi per Rose – Populaire prepara lo sbarco italiano. Ecco poster, foto ed interviste

pubblicato 27 Maggio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 14:49

Il talento può manifestarsi in diverse forme e la semplice dattilografa di Tutti pazzi per Rose, è la dimostrazione che con perseveranza e impegno si può raggiungere il successo anche senza essere campioni nello sport o star del cinema. Una favola moderna? Non solo: Populaire (poi infelicemente tradotto in Tutti pazzi per Rose) è anche una delicata storia di emancipazione, un affresco della condizione femminile nell’Europa sul finire degli anni ’50, una gioiosa storia d’amore. Insomma una commedia che promette risate e buonumore, senza essere necessariamente vuota di contenuti, che uscirà nelle sale italiane dal 30 maggio.

Tutti Pazzi per Rose – Populaire: poster italiano, data di uscita ed interviste con attori e regista

Dopo lunga attesa, grazie alla BIM il prossimo 30 maggio anche i cinema italiani potranno ammirare il delizioso Populaire dell’esordiente Régis Roinsard, discutibilmente diventato per il nostro mercato Tutti Pazzi per Rose. Applaudito ma uscito a mani vuote dall’ultimo Festival Internazionale del Film di Roma, dove è stato presentato fuori concorso, il film ha incassato poco meno di 10 dollari di euro in patria, per poi essere nominato a 5 Premi Cesar.

Protagonisti Romain Duris, Déborah François e Bérénice Béjo, per una splendida pellicola da noi già recensita ed abbondantemente promossa. Oggi, in attesa del trailer, ecco arrivare la (non esaltante) locandina italiana, accompagnata da una prima gallery e da una serie di interviste a regista ed attori, rilasciate dalla stessa BIM.

Vero e proprio omaggio agli anni 50, con l’emancipazione femminile protagonista indiscussa della trama, Populaire vi porterà per mano nel ‘colorato’ 1958. Rose Pamphyle ha 21 anni e vive con suo padre, un burbero vedovo titolare dell’emporio di un piccolo villaggio in Normandia. Rose è promessa in sposa al figlio del proprietario dell’autofficina e l’attende un destino di casalinga docile e devota. Ma Rose non vuole saperne di una vita del genere. Così decide di partire per Lisieux, dove il trentaseienne Louis Echard, carismatico titolare di un’agenzia di assicurazioni, sta cercando una segretaria. Il colloquio per l’assunzione è un fiasco totale. Ma Rose ha un dono: batte i tasti della macchina per scrivere a una velocità vertiginosa e così riesce suo malgrado a risvegliare l’ambizioso sportivo che sonnecchia in Louis… Se vuole ottenere il posto, Rose dovrà partecipare a delle gare di velocità dattilografica. Ignorando i sacrifici che la giovane dovrà compiere per raggiungere l’obiettivo, Louis si improvvisa allenatore e decreta che farà di Rose la dattilografa più veloce di Francia, e perfino del mondo! E l’amore per la competizione sportiva non va necessariamente d’accordo con l’amore puro e semplice…

Tutti Pazzi per Rose - Populaire: poster italiano, data di uscita ed interviste con attori e regista
Tutti Pazzi per Rose - Populaire: poster italiano, data di uscita ed interviste con attori e regista
Tutti Pazzi per Rose - Populaire: poster italiano, data di uscita ed interviste con attori e regista
Tutti Pazzi per Rose - Populaire: poster italiano, data di uscita ed interviste con attori e regista
Tutti Pazzi per Rose - Populaire: poster italiano, data di uscita ed interviste con attori e regista
Tutti Pazzi per Rose - Populaire: poster italiano, data di uscita ed interviste con attori e regista

Intervista con Régis Roinsard


TUTTI PAZZI PER ROSE è il suo primo lungometraggio. Quale percorso l’ha portata alla regia?

Ho sempre avuto voglia di raccontare storie attraverso le immagini e quando ero al liceo avevo iniziato a fotografare le persone che i miei compagni consideravano strane. A onor del vero, credo di aver fatto anch’io parte di quella categoria, visto che passavo tutto il mio tempo a registrare i film che venivano trasmessi in televisione per poterli esaminare in dettaglio in un secondo momento. Poi ho studiato cinema e in seguito mi sono cimentato in tutti i mestieri cinematografici: macchinista, scenografo, fonico, ecc. Volevo confrontarmi con la realtà tecnica della costruzione di un film. Nel giro di breve tempo, ho girato il mio primo lungometraggio, a cui ne sono seguiti altri tre e mentre lavoravo al terzo ho iniziato a realizzare spot pubblicitari, videoclip e documentari musicali per artisti quali Jean-Louis Murat, Jane Birkin e Luke. Ho fatto completamente miei tutti questi lavori su commissione, ma nel frattempo ho continuato a coltivare l’idea di passare al lungometraggio. Penso che il motivo per cui ho impiegato tanto per riuscirci è stato che volevo a tutti i costi innamorarmi di una storia.
Come le è venuta l’idea di rievocare le gare di dattilografia in un’opera di finzione?
Nel 2004, mi è capitato di vedere un documentario sulla storia della macchina per scrivere che comprendeva una piccolissima sequenza sui campionati di velocità dattilografica: quei brevi trenta secondi mi hanno talmente affascinato che ho subito percepito le potenzialità cinematografiche e drammaturgiche di quel tema e quindi ho cominciato subito a delineare la trama. L’universo della dattilografia mi sembrava folle: trovavo incredibile che fosse potuto diventare uno sport ed ero incantato dal rapporto uomo/macchina. All’inizio avevo soltanto la giovane campionessa e il personaggio maschile non esisteva. Ma avevo già immaginato che lei venisse da un villaggio e le avevo dato il nome di una delle mie nonne. C’è da dire che, esattamente come Rose, anch’io vengo da una piccola città della Normandia e che Parigi, per me, rappresentava la metropoli inaccessibile.
A partire da questo spunto, come si è documentato?
Ho cominciato a indagare sulla «disciplina sportiva» di velocità dattilografica e sulle scuole che insegnavano stenografia e dattilografia. Era il 2004 ed è stato un lavoro complicato, perché in quegli anni tutte le scuole stavano scomparendo e non era stato conservato quasi nessun documento d’archivio. Su Internet ho trovato qualche breve video delle gare di velocità dattilografica. Tra i documenti più interessanti, ho scoperto una fotografia di un campionato americano che si svolgeva in una sala simile a un velodromo davanti a migliaia di spettatori. Ho anche scovato le pubblicità della Japy, l’azienda francese che fabbricava macchine per scrivere e organizzava gare di velocità dattilografica, che elencano i campionati regionali. Inoltre, ho incontrato ex campioni e campionesse di velocità che mi hanno raccontato la pressione mentale che subivano e le strategie di destabilizzazione degli avversari attraverso lo sguardo, confortandomi nell’idea che fosse un vero e proprio sport. Ma in quella fase, non sapevo assolutamente se il film avrebbe preso la strada del dramma o della commedia.
E a quel punto si è lanciato nella scrittura?
Sì, con l’idea di adottare un registro che fosse squisitamente mio. Ho iniziato scrivendo un trattamento di una trentina di pagine, in cui ho creato i personaggi che gravitano attorno a Rose, e con Daniel Presley, un amico produttore musicale grande fan delle commedie americane degli anni ’50, abbiamo inventato i personaggi di Bob e Marie. Di conseguenza, abbiamo deciso di scrivere la sceneggiatura a quattro mani. Daniel è estremamente esigente e ha un umorismo alla Woody Allen: avevamo pensato di scrivere i dialoghi in inglese, di cui io avrei in seguito proposto un adattamento in francese, in modo da realizzare una alchimia perfetta tra commedia americana e «French touch»! Ho anche apprezzato molto il fatto che Daniel mi facesse osservazioni pertinenti sulla musicalità e il ritmo dei dialoghi. Alla fine della prima stesura, eravamo soddisfatti solo al 60%, nello specifico perché avevamo l’impressione che l’evoluzione psicologica di Rose fosse troppo semplicistica. Casualmente avevo letto alcune sceneggiature del ventiseienne Romain Compingt, un fan di Britney Spears e Marilyn Monroe, e per qualche strano motivo percepivo in lui una sensibilità particolare che avrebbe potuto dare corpo alla psicologia di Rose. Mi sono quindi rivolto a Romain e, tre settimane dopo, ci ha restituito una versione della sceneggiatura che ci ha soddisfatto all’85%! Con lui, la storia d’amore è diventata più audace. Ci siamo rimessi al lavoro tutti e tre insieme, chiedendoci se potesse funzionare una collaborazione tra un giovane fan di star decadute, un musicista americano e me, cosa tutt’altro che scontata!
In quale fase Alain Attal è entrato a far parte del progetto?
È stato il primo a leggerlo: gli abbiamo dato la sceneggiatura un venerdì e il martedì seguente ci ha detto che voleva fare il film! Ci siamo incontrati e ci siamo subito resi conto che la mia visione del film corrispondeva alla sua. La cosa straordinaria è che Alain si pone lui stesso come un «allenatore»: mette i registi in condizione di dare il meglio di sé. Alain è il mio Louis Echard! È anche una persona animata da un’autentica follia e dalle sue ossessioni artistiche: mi ha messo costantemente con le spalle al muro, incoraggiandomi ad avere dei dubbi e questa è una dialettica che amo molto. Inoltre, è un grandissimo cinefilo e condividiamo gusti e riferimenti visivi, quindi ci siamo a lungo confrontati su cineasti come Nicholas Ray o Godard, che lui conosce come le sue tasche, o sui film a colori di Joseph Losey.
Il progetto è partito anche dal desiderio di rievocare la fine degli anni ’50?
C’era anche questo, anche se non volevo in alcun modo fare un film che rendesse omaggio a quell’epoca. In realtà, sono affascinato dagli anni ’50 sul piano estetico, musicale, letterario e cinematografico. Prova ne è che amo molto film recenti ambientati in quel periodo, come PLEASANTVILLE o PEGGY SUE SI È SPOSATA, e volevo che la messa in scena e il montaggio si inscrivessero nella modernità.
Cosa le piace tanto degli anni ’50?
Sono caratterizzati da un rapporto spazio-temporale molto particolare che segna sia l’esordio della società dei consumi per gli adolescenti, con la nascita del rock’n roll e l’evoluzione dei codici di abbigliamento, sia i primi passi dell’intrattenimento e delle sponsorizzazioni negli eventi sportivi. È anche il periodo dei “Trente Glorieuses”, il trentennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale durante il quale la disoccupazione quasi non esisteva e l’avvenire sembrava roseo, malgrado la situazione mondiale fosse più cupa di quanto non la si volesse vedere. Gli anni ’50 sono stati un decennio strano in cui la gente, che usciva dal conflitto mondiale, preferiva non affrontare gli eventi drammatici che si verificavano nel mondo, cosa che è stata costretta a fare solo a partire dal decennio seguente.
È anche un decennio che ha segnato una svolta sul piano sociologico e culturale.
Sì, perché gli anni 1958-59 precedono immediatamente l’inizio dell’emancipazione
femminile. Due o tre anni dopo, le gonne si sono accorciate e le donne si sono posizionate in modo diverso nel mondo del lavoro. Mi piace molto quest’epoca perché costituisce un momento cardine che annuncia i successivi anni ’60. E questo vale anche dal punto di vista della moda: per esempio, i modelli simbolo di Ray-Ban li portiamo ancora oggi. E poi l’ossessione per la velocità è nata in quel periodo: i record di velocità in automobile si moltiplicavano e si sono costruiti i primi aerei supersonici. La ricerca della velocità, che caratterizza tanto gli anni ’50, mi colpisce molto, considerando che siamo tutt’ora in questa fase di ricerca sfrenata ai giorni nostri.
Qual era il suo obiettivo per quanto riguarda lo stile visivo del film?
Abbiamo lavorato alla direzione artistica in modo periferico: volevamo ricreare gli anni ’50 mescolando l’aspetto documentario, il cinema dell’epoca che amo, in particolare i film americani, e l’immagine fantastica che ha la gente di quel periodo. Tutto quello che riguarda i protagonisti trae ispirazione dal cinema e dalla fantasia, attingendo ai codici di cineasti quali Billy Wilder e Douglas Sirk, e più ci si allontana dalla cerchia dei personaggi principali, più ci si avvicina a una visione documentaria. Per esempio, i ruoli secondari e le comparse sono ancorati in una visione realistica poiché abbiamo voluto che avessero profili e fisionomie tipici dell’epoca.
E i colori?
Abbiamo esaminato molte pubblicità americane e francesi degli anni ’50 e visionato quasi tutti i film a colori girati in quell’epoca in Francia. Non è stato facile, perché in quel periodo in Francia si girava ancora prevalentemente in bianco e nero e i rari film a colori erano essi stessi film d’epoca realizzati in studio! IL PALLONCINO ROSSO o ZAZIE NEL METRO’ sono stati per noi fonte d’ispirazione, ma abbiamo un po’ barato, perché abbiamo visto anche i film a colori della Nouvelle Vague, come LA DONNA È DONNA di Godard.
Ha avuto altri riferimenti oltre a quelli cinematografici?
Come riferimento abbiamo preso anche l’insieme delle opere di un illustratore, Alex Steinweiss, che in quegli anni ha ideato un discreto numero di copertine di dischi. Nel suo lavoro c’è tutta la gamma cromatica, sia nei vestiti, sia negli ambienti, che abbiamo utilizzato per la totalità del film. Ho anche fornito al reparto scenografie una serie di riferimenti di designer e stilisti dell’epoca: volevo che il film esprimesse la mia visione estetica degli anni ’50.
L’aspetto più difficile era far credere agli spettatori che gli esterni siano quelli degli anni ’50. Per questo motivo, abbiamo consultato immagini d’archivio a colori per aderire alle tonalità insature di quel periodo. E ci siamo resi conto che, per esempio, le automobili erano sempre monocromatiche perché in quell’epoca le vernici delle carrozzerie non erano ancora industriali o erano appannaggio di una clientela agiata. Abbiamo quindi optato per un’insaturazione dei colori, mantenendo le dominanti di rosso, verde e blu perché volevo che l’occhio fosse incessantemente sollecitato.
A tratti il film ci fa pensare a Jacques Demy. È stato anche lui un regista di riferimento sul piano visivo per lei?
Assolutamente! Adoro le storie che in apparenza sono rosa, ma che nella sostanza non lo sono più di tanto. È probabile che sia questo aspetto ad avvicinare TUTTI PAZZI PER ROSE a una fiaba. E nel cinema di Demy, bisogna saper cogliere l’ironia tra le righe, anche quando a volte i film hanno un happy end. Demy utilizza la magia e l’illusione per far scivolare un messaggio più profondo di quanto non sembri. Tra i suoi film, quello che amo di più è LA FAVOLOSA STORIA DI PELLE D’ASINO, malgrado anche LES PARAPLUIES DE CHERBOURG sia stato per me una fonte d’ispirazione.
Detto questo, per me TUTTI PAZZI PER ROSE è anche un film di cappa e spada! La sequenza finale si ispira a SCARAMOUCHE di George Sydney: quando Louis sbarca a New York, siamo quasi in una situazione da duello cavalleresco o da combattimento tra gladiatori.
Come mai nel film c’è una strizzata d’occhio a LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE?
All’inizio non era deliberata: i colori dominanti rosso e blu mi vengono da LA VENERE IN VISONE di Daniel Mann, dove una coppia adultera si reca in un motel. Poi abbiamo guardato LA DONNA È DONNA che comprende una scena anch’essa giocata nei rossi e blu. Quindi mi sono ispirato alla visione fantastica di Hitchcock che è stata assimilata da altri registi. Io stesso ne sono impregnato visto che, quando ho visto Déborah François uscire dal bagno, ho avuto l’impressione di veder apparire Kim Novak. Per la musica, abbiamo fatto ascoltare la partitura di LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE al mio compositore che non è più riuscito ad allontanarsene.
Come ha sviluppato i personaggi?
All’inizio, quando ho scritto il ruolo di Rose, l’ho fatto pensando a tutte le donne che negli anni ’50 volevano emanciparsi e in particolare a mia madre: faceva l’agricoltrice con i suoi genitori e a un certo punto li ha lasciati per andare a lavorare in una città più grande. Lì ha incontrato mio padre, che dirigeva una compagnia d’assicurazione e aveva nei confronti delle persone un modo di fare più simile a quello di un medico di campagna che a quello di un assicuratore di oggi. Svolgeva un ruolo di catalizzatore con i suoi clienti e anche, per certi versi, con mia madre che ha aiutato a smarcarsi e a liberarsi. Quando sono nato io, mia madre ha fatto la stessa cosa con mio padre: nel momento in cui è andato in pensione, si è comportata con lui come una «allenatrice». Mi piace molto questo rapporto di mutua assistenza tra gli esseri umani. In TUTTI PAZZI PER ROSE, Rose è aiutata da Louis che ha la velleità di farle da allenatore fino a quando, progressivamente, i rapporti si invertono. Ho pensato di trovare un equilibrio in questo genere di legame tra individui che, a turno, si stimolano gli uni con gli altri. Del resto, continuavo a ripetere alla mia troupe: «Siete al tempo stesso allenatori e atleti». Ho sempre avuto una passione per lo sport e ho sempre amato la figura dell’allenatore.
Ci parli della scelta degli attori…
Volevo riunire un cast dove ogni attore avrebbe apportato la propria unicità, come un direttore d’orchestra che sceglie dei musicisti che si rispondono e si accordano reciprocamente. Un po’ alla maniera di Tim Burton che mescola attori celebri ad attori di profilo più basso e ad attori teatrali. Nella selezione del cast non ho fatto alcuna concessione perché era essenziale che tutti i personaggi fossero pienamente incarnati. Per questo motivo gli attori che ho scelto provengono da orizzonti diversi. Romain Duris si è imposto subito poiché sono impressionato dal suo senso del ritmo e della commedia. Si è impegnato moltissimo per incarnare il personaggio: ha chiesto che venissero riscritte alcune parti della sceneggiatura per approfondire il ruolo e ha svolto lui stesso una ricerca sul contesto del film, arrivando a incontrare un allenatore di calcio per farsi spiegare in cosa consiste il suo mestiere. Romain è sempre alla ricerca di qualcosa e a un certo momento ne sapeva più lui di noi del personaggio. Quello che mi piace in lui è il fatto che, come Louis, mantiene su di sé un alone di mistero. Non parla molto di se stesso e questo tipo di atteggiamento è stimolante per me e affascinante per i suoi partner.
E per Rose Pamphyle?
All’inizio, con Alain Attal, ci eravamo detti che avremmo preso un’attrice sconosciuta al grande pubblico, ma poi, al momento di selezionare il cast, abbiamo deciso di non porci dei limiti. Abbiamo provinato circa 150 attrici professioniste e principianti, e Déborah si è imposta con evidenza a tutti noi. Mescola un’autentica fragilità e una distrazione commovente che può evolvere verso un certo non so che di affascinante: possiede esattamente quello che cercavamo per Rose, una ragazza che viene dalla campagna e diventa una star. E quando Déborah ha fatto i primi provini, sono rimasto folgorato nel vedere che arrossiva veramente! Era Rose Pamphyle! Dovevamo poter incollare la foto di Rose Pamphyle accanto a quelle delle star dell’epoca senza che questo creasse uno shock, in modo tale che diventasse una nuova musa ispiratrice. Volevo «tremare» vedendo Rose Pamphyle. Quello che mi piace in Déborah, è il suo lato molto indipendente e il suo carattere ben temprato. Peraltro, ci siamo completamente trovati nelle sfide che POPULAIRE ha posto ad entrambi: nel percorso di ciascuno dei due, è la prima volta che abbiamo la possibilità di lavorare su un grosso film su cui abbiamo puntato una posta molto alta.
Come l’ha diretta?
A volte con lei sono stato una specie di «Louis Echard», soprattutto negli allenamenti che le ho imposto perché acquisisse la velocità dattilografica. Poi Romain, che nel film incarna il suo «allenatore», ha naturalmente preso il mio posto: è persino andato a Liegi per vederla allenarsi a battere la tastiera con dieci dita. Per prepararsi a interpretare il ruolo, ho chiesto a Déborah di guardare le commedie di Billy Wilder, interpretate da Audrey Hepburn e Shirley MacLaine, ma volevo che andasse anche verso Marilyn Monroe. Le ho fornito diverse iconografie dell’epoca per farle comprendere le posture delle donne negli anni ’50, dal modo di baciare a quello di stare sedute su un divano, di alzarsi, ecc. Déborah non è mai nel mimetismo: assimila tutto il materiale che le viene fornito e lo rielabora, staccandosi completamente dal modello originale. Solo la sua pettinatura, con la coda di cavallo, è un riferimento diretto ad Audrey Hepburn: motivo per cui, abbiamo attaccato un poster della star su una parete della sua camera.
Come le è venuta l’idea di affidare il ruolo di Marie a Bérénice Béjo?
In realtà l’ho scoperta grazie a THE ARTIST, dove mi ha particolarmente toccato nella scena in cui si impossessa del cappotto di Jean Dujardin nel suo camerino: ho capito tutta la sensibilità di cui doveva dar prova per interpretarla in modo efficace. Ero anche alla ricerca di una bellezza indiscutibile, quella che tutti abbiamo ammirato al liceo nelle ragazze più carine, e di un’attrice in grado di rendere credibile una storia d’amore con Romain, tra il personaggio interpretato da lui e la sua fidanzata ideale. Anche se Louis è completamente perso per Rose e paralizzato da lei, e malgrado Marie sia sposata con Bob, Louis e Marie sono indissolubilmente legati uno all’altra. Sapevo che Bérénice sarebbe stata in grado di interpretare una madre casalinga soddisfatta del suo ruolo, che tuttavia non si lascia ingannare dalla posizione delle donne nella società dell’epoca. Quando abbiamo fatto una prima lettura con Bérénice e Romain, lui era a bocca aperta: percepiva in lei sia il lato materno e rassicurante sia il lato anticonformista e sexy. Come testimonia il suo taglio di capelli di media lunghezza, è una donna moderna: è già proiettata negli anni ’60.
Perché ha reso americano l’amico di Louis Echard?
Negli anni ’50, i francesi fantasticavano sugli Stati Uniti. Attraverso un personaggio americano, volevo che si potesse dare corpo al passaggio dalla società dei consumi alla società dell’intrattenimento che in Francia iniziò a verificarsi in quel periodo. Inoltre, grazie al personaggio di Bob, e a Shaun Benson che lo interpreta, ho potuto sottolineare l’aspetto di commedia musicale del film, visto che mi fa pensare a Gene Kelly.
Come ha scelto le musiche preesistenti?
Innanzitutto non mi sono fissato in modo inderogabile sull’anno in cui si svolge la storia: ho preferito lasciarmi un margine di circa tre anni prima e tre anni dopo il 1958. Per quanto riguarda la musica americana, adoro la musica lounge e il jazz varietà di musicisti come Les Baxter o Martin Denny, e sono anche un appassionato di tutti quei compositori degli anni ’50 che hanno scritto per Sinatra e altri crooner. Volevo utilizzare quel genere di musica, ma anche le canzoni francesi dell’epoca. Nella Francia del dopoguerra dominavano cantanti come Montand, Ferré, Brassens e Piaf e quindi non trovavo l’equivalente del jazz varietà americano. Poi ho scoperto artisti misconosciuti come Jack Ary, che dirigeva un’orchestra di cha-cha-cha e mambo. Ha pubblicato una ventina di 45 giri ed è così che ho scovato «il cha-cha-cha della segretaria».
E le musiche originali?
Mi sono reso conto che ne avevo bisogno perché le musiche preesistenti non mi bastavano. Mi sono rivolto a Rob, che lavora con la band Phoenix e che è molto forte sul fronte melodico, e a Emmanuel d’Orlando, e insieme hanno composto dei brani che apportano al film un grande impatto emotivo. Mi ero sempre detto che era necessario andare verso il melodramma! Per la registrazione, mi sono ispirato ai metodi degli anni ’50-’60, in particolare per il posizionamento dei microfoni. Abbiamo inciso in Francia con musicisti che abitualmente suonano opere liriche e che sono stati entusiasti di assaporare la musica pop guardando le immagini del film. Tutto sommato, la colonna sonora si avvicina a una commedia musicale e sono felice di questo poiché, se ci sono due cineasti che adoro per il loro senso del ritmo e delle tonalità, sono Stanley Donen e Bob Fosse.

Intervista con Romain Duris


Come è approdato a questo progetto?

Per merito di Régis ovviamente! So che ha subito detto ad Alain Attal, il produttore del film, che avrebbe adorato affidarmi il ruolo di Louis Echard, il titolare di una piccola agenzia di assicurazioni in Normandia. È avvenuto tutto molto in fretta: hanno contattato il mio agente David Vatinet e mi hanno inviato la sceneggiatura. Poi ci siamo incontrati.
Che cosa l’ha sedotta nella sceneggiatura?
Quando l’ho ricevuta, ero completamente immerso in «La notte poco prima della foresta», la pièce che ha messo in scena Patrice Chéreau. Nell’ultimo anno avevo rifiutato tutte le proposte che avevo ricevuto perché nessuna mi aveva entusiasmato. Leggendo il copione ho subito colto l’originalità della storia che Régis aveva immaginato: una giovane segretaria che diventa campionessa del mondo di velocità dattilografica. Mi piaceva anche l’idea di ritrovarmi a interpretare un personaggio che appartiene alla generazione di mio nonno e l’aspetto singolare e misterioso che lo caratterizza. Fino a quando non incontra Rose, Louis è sempre arrivato secondo nella sua esistenza, sia nella sua vita personale sia in quella professionale, visto che sulla carta il suo mestiere non è tra i più cavallereschi. Ed ecco che, all’improvviso, viene colto da passione per questa segretaria che vuole trasformare in una campionessa. Diventa un allenatore come in ROCKY! Trovo il percorso di questo personaggio estremamente toccante, persino nel suo modo di annullarsi di fronte a questa giovane donna per catapultarla ai vertici. Mi è sembrato evidente che sarebbe stato appassionante interpretare questo Louis Echard. E l’incontro con Régis non ha fatto altro che rafforzare il mio desiderio di incarnarlo. Ascoltandolo parlare con entusiasmo e precisione della sua sceneggiatura e vedendolo anche disponibile all’ascolto e quindi pronto al dialogo, mi sono definitivamente convinto.
Come ha lavorato per costruire il personaggio?
Innanzitutto Régis mi ha mostrato alcuni giornali dell’epoca con delle fotografie a cui si era ispirato per creare l’universo del suo film. Ma mi ha anche chiesto di rivedere vari film di Douglas Sirk, Howard Hawks, Billy Wilder e anche UN AMORE SPLENDIDO di Leo McCarey. Tutto questo mi ha aiutato a familiarizzare con il tono delle voci, la postura e il modo di muoversi di quegli anni. Ma sia Régis sia io abbiamo sempre tenuto presente che quei riferimenti erano americani, mentre TUTTI PAZZI PER ROSE s’iscrive a pieno titolo in una certa cultura francese. Per questo motivo, ho anche guardato in parallelo alcuni film francesi degli anni 1958-1959 nei quali si può inserire la storia di POPULAIRE: PECCATORI IN BLUE JEANS di Marcel Carné, I CUGINI e LE BEAU SERGE di Claude Chabrol… Questi film mi hanno permesso di vedere in dettaglio i codici dei giovani di quell’epoca, sia nel modo di vestire, sia nelle tecniche per rimorchiare le ragazze, e anche le differenze tra i comportamenti dei giovani parigini e quelli dei giovani di provincia. Tutti questi elementi mi hanno fornito una base ideale su cui costruire Louis.
Come definirebbe Louis?
È un assicuratore modesto a cui le persone affidano il loro denaro. È l’opposto di un truffatore: è una persona che ispira un’immediata fiducia al primo incontro, un uomo gentile, ma per niente scaltro. Ed è probabilmente per questa ragione che qualche anno prima si è lasciato sfuggire Marie (Bérénice Bejo), la donna che amava: è totalmente incapace di promettere più di quanto sia in grado di mantenere al momento. Ma Louis è anche un uomo con il complesso di essere l’eterno secondo, sia nello sport, sia agli occhi di suo padre, sia nel cuore di Marie. Non è un eroe: è un uomo con una frustrazione interiore che trasferisce tutta la sua ambizione su Rose, che vuole trasformare in una campionessa.
Secondo lei, perché si dedica tanto a Rose?
È affascinato dalla sua sfacciataggine e dalla sua ambizione. Quando Rose vuole una cosa finisce sempre per ottenerla, in un modo o nell’altro. Louis intuisce quasi subito le potenzialità di Rose di diventare una campionessa. Lei accende qualcosa in lui, ma lui impedisce a se stesso di innamorarsi di lei. Poi, passando del tempo con lei, allenandola, pian piano si rende conto che lei sta realizzando una cosa che avrebbe potuto fare lui e si proietta in lei. Facendo questo percorso con Rose, arriva a compiere una scelta con Marie e a concedersi di amare di nuovo. Ma per riuscire a farlo deve anche guarire dalla sofferenza di essere un eterno secondo. Per certi aspetti, Rose è un balsamo per tutti i dolori vissuti, anche se gli ci vorrà del tempo per ammetterlo.
Diventare allenatore sullo schermo le ha richiesto una preparazione particolare?
Insieme a Régis, sono andato a incontrare Régis Brouard, che allora era l’allenatore della squadra di calcio di Quevilly. Aveva già fatto l’exploit di portare la «piccola» squadra di divisione National fino alle semifinali della Coppa di Francia. E da allora ci è ricascato, riuscendo ad arrivare alle finali. Ho quindi potuto osservare in dettaglio come dialoga con la sua squadra, le parole che sceglie di sottolineare negli spogliatoi, le sue azioni giorno per giorno. Di fatto, è tutta una questione di autorità: bisogna sapere in quale momento si può essere freddi con le persone che si stanno allenando per esaltare la loro motivazione e fino a dove si può arrivare senza spezzare la fiducia in se stessi o come creare uno spirito di emulazione senza schiacciare nessuno. È una meccanica di precisione affascinante da osservare.
Spesso si dice che l’abito fa il personaggio. È stato così anche per lei quando ha indossato i costumi di Louis?
Sì, perché anche il lavoro della costumista Charlotte David è stato di una precisione rara! Charlotte non è una neofita, è famosa per aver creato i costumi dei due film OSS 117. Avevo piena fiducia in lei e non sono rimasto deluso. Tutti i costumi sono stati realizzati su misura con una scrupolosa attenzione per ogni minimo dettaglio. I costumi sono un elemento fondamentale prima di iniziare le riprese di un film. E io ho avuto occasione di provarli molto prima di andare sul set, quindi ho subito sentito come i vari completi si disegnavano sul mio corpo. Due mesi prima del primo ciak, ero già fisicamente immerso nel personaggio.
Avete provato prima delle riprese?
Abbiamo fatto una semplice lettura con tutti gli attori. Ma prima avevo fatto numerosi provini con Déborah. La selezione delle attrici per trovare l’interprete di Rose è stata in effetti piuttosto lunga e laboriosa. Ma a ogni nuovo giro di audizioni, Déborah tornava! È stata magnifica nel prestarsi al gioco e quei momenti mi sono anche stati enormemente utili, poiché mi hanno permesso di approfondire la conoscenza del mio personaggio e anche di vedere come Régis dirige gli attori.
Può dire che è stato un personaggio che ha trovato abbastanza rapidamente?
Nel giro di breve tempo mi sono fatto un’idea della sua postura e del suo modo di comportarsi. Ma ho impiegato molto di più a delineare la sua interiorità, poiché, per tutta la durata del film, Louis non deve sembrare né apertamente simpatico né totalmente antipatico, ma deve rivelarsi piano piano, senza forzature nell’atteggiamento. Mi sono lasciato guidare da un sentimento: il pudore. Ma, anche in questo caso, era tutta una questione di giusta misura. Premendo troppo sul pudore nel manifestare i sentimenti, avevo paura di impedire agli spettatori di arrivare a provare delle emozioni.
Come è stata la sua collaborazione con Déborah François?
È stata una delizia! Déborah è un’attrice abbastanza tecnica, nel senso positivo del termine. Per questo motivo è stato molto facile sviluppare le scene insieme. Non ha il minimo blocco. È stato estremamente piacevole sentire che tra noi si creava una complicità in modo del tutto naturale.
E cosa l’ha sedotta in Régis Roinsard come regista?
Régis concede molta libertà, ma appena sente che ti stai allontanando troppo, è in grado di intervenire nel momento adatto per riportarti sui binari giusti senza spezzarti le ali. Ricordo, per esempio, le riprese della scena in cui il mio personaggio guarda i campionati di dattilografia e vive quei momenti in uno stato di sovreccitazione totale. A me è capitato di calcare troppo la mano e ogni volta Régis sapeva come avvicinarmi e spiegarmi in modo molto chiaro come fare per restare nella linea più virile e più concentrata del personaggio e invitarmi a non dimenticare che per Louis quei momenti sono solenni ed essenziali. Régis sa guardare gli attori. Ma ho anche capito molto in fretta quanto il film gli stesse a cuore. Viene dalla provincia, come i personaggi di POPULAIRE. E il tema del riconoscimento, che è centrale in questa pellicola, gli è molto caro, senza contare il fatto che suo nonno è stato un membro attivo della Resistenza come il mio personaggio. Del resto, Régis si identificava molto in Louis e posso assicurarvi che per un attore è molto bello vedere un regista con le lacrime agli occhi quando l’interprete recita determinate scene. È molto gratificante. Régis ha un cuore e un’anima e non esita a mettere il proprio
intimo in quello che racconta. Infine, possiede anche un talento essenziale: è perfettamente capace di circondarsi delle persone giuste, a cominciare da Alain Attal, un grande produttore pieno di entusiasmo che sa che affinché un film esista e trovi la sua dimensione piena bisogna investire non pochi soldi in alcune settori chiave e anche in tutti i capi settore, la costumista, il direttore della fotografia Guillaume Schiffman, il responsabile del suono… Ho notato che tutti, senza eccezione, sono rimasti toccati dall’amore che Régis aveva per il suo film, dal rispetto che nutre per le persone e dal desiderio che aveva di condurre la sua barca in un porto sicuro insieme ad ogni collaboratore.
Nel film c’è una scena memorabile che rivela molto del suo personaggio. È la scena della cena di Natale quando Rose incontra in modo inatteso la sua famiglia. Un momento di grande commedia sullo schermo. È stata altrettanto esilarante da interpretare?
Sinceramente non è stato molto complicato vestire i panni di un figlio che ha problemi di comunicazione con il proprio padre! Sono rari coloro che non hanno mai vissuto una situazione del genere. Per il resto, poiché quella scena era scritta in modo magistrale, il mio unico timore era che Eddy Mitchell apparisse troppo cool! Ritenevo essenziale che si sentisse d’acchito la sua autorità paterna su Louis, l’autorità di quella generazione che oggi ai nostri occhi appare piuttosto brutale e davvero molto lontana da quello che Eddy emana spontaneamente! Ma i miei dubbi sono svaniti al primo ciak. Eddy è stato perfettamente capace di mostrare una facciata rude che gli conosciamo poco. E bisogna aspettare il benestare del suo personaggio alla fine della scena perché tutti possano tirare un respiro di sollievo e Rose sia accettata nella famiglia. Nell’attesa di quel momento tutti restano con il fiato sospeso.
Cosa ha trovato più difficile in tutta questa avventura?
Temevo il momento in cui il mio personaggio decide di lasciare che Rose spicchi il volo da sola prima della finale di New York. L’istante in cui, mentre raggiunge i suoi obiettivi (Rose è campionessa di Francia e lo ama), decide di partire. Bisognava fare molta attenzione per evitare che il pubblico abbandonasse Louis in quel momento. Si trattava non tanto di spiegare ogni cosa, quanto di trovare la giusta misura affinché quell’istante fosse al tempo stesso misterioso e commovente. Già non era facile integrare i problemi del mio personaggio in una commedia molto ritmata e guidata dai passi «sportivi» di una campionessa in cui si innesta una storia d’amore. In più, al contrario, se non lo calcavo abbastanza certi aspetti, rischiavo sia di spezzare la dinamica dell’insieme corale sia di impedire ogni forma di empatia nei confronti di Louis. Ma credo che ci siamo riusciti senza indebolire la colonna vertebrale del film, ovvero il percorso di Rose.
Il film ultimato è molto vicino all’immagine che si era fatto?
È ancora più bello! Era impossibile rendersi conto della precisione della luce di Guillaume Schiffman guardando lo schermo del monitor sul set. Régis è riuscito a realizzare un film ben recitato, molto efficace ed estremamente sottile. E soprattutto un vero film personale e non «alla maniera di».
Intervista con Déborah François

Intervista con Déborah François

Cosa le è piaciuto di Rose Pamphyle, il suo personaggio?
Un ruolo così è un regalo per una attrice! Fin dalla prima lettura ho subito colto le sue potenzialità e la sua sincerità e mi ha enormemente toccata. C’è in lei una sensibilità, una voglia di ridere, una rabbia e tutta una gamma di emozioni straordinarie da interpretare. È per questo che tante attrici si sono presentate ai provini. Io ci tenevo così tanto ad ottenere questa parte che mi sono accanita come una pazza! Quando ho incontrato Régis per la prima volta, mi sono presentata dicendogli: «Salve, Rose Pamphyle, con la «y»». Lui si è messo a ridere!
Come l’ha convinto?
Con Régis ci siamo trovati molto in sintonia, perché Rose emoziona entrambi e assomiglia a tutti e due per diversi aspetti. Penso che quando mi ha incontrata abbia capito che per me la sfida sarebbe stata simile alla sua e che abbia colto nel mio sguardo un messaggio che diceva «Scegli me». Per convincerlo, ho recitato la scena del primo incontro con Louis: me la ricorderò per sempre perché l’avevo provata un numero incalcolabile di volte! Ma alla fine, la mia visione del personaggio era abbastanza vicina all’interpretazione che poi ne ho dato nel film.
Aveva sentito parlare delle gare di dattilografia?
Assolutamente no. All’inizio ho addirittura pensato che fossero un’invenzione di Régis e quindi non ho cercato di approfondire. Quando mi ha detto che quelle gare erano realmente esistite, mi ha inondata di documenti! Ricordo in particolare un vero e proprio campionato di dattilografia che era stato filmato, un documento raro e impressionante. Mi ha anche dato dei manuali su vari metodi dattilografici e per cambiare i fogli e un video di una segretaria della Marina americana che mostra come effettuare un cambio di foglio in tre movimenti alla velocità della luce! Inoltre, ho guardato una serie di documentari sui giovani di quegli anni, dei ritagli di giornali e un numero enorme di illustrazioni. E ho rivisto numerosi film interpretati da Audrey Hepburn, a cui ci siamo un po’ ispirati per il personaggio di Rose, come SABRINA, ARIANNA, CENERENTOLA A PARIGI e MY FAIR LADY.
Si è allenata molto in dattilografia?
Nella fase di preparazione, mi ci sono dedicata da due a tre ore al giorno per tre mesi e poi anche durante le riprese, ma non tutti i giorni. Quando dovevo girare una scena in cui battevo a macchina, la sera prima non mi allenavo perché avevo paura di farmi male. All’inizio, peraltro, per poco non mi faccio venire un’epicondilite, perché non è una postura naturale e i tasti della macchina per scrivere sono difficili da schiacciare. È una gestualità abbastanza particolare da imparare. Il dover utilizzare il mignolo era ancora più complicato per me che non avevo l’abitudine di battere sulla tastiera con tutte e dieci le dita. E ogni volta che facevo un errore di battuta, dovevo ricominciare daccapo.
Possiamo dire che l’epoca in cui è ambientato il film segna l’inizio dell’emancipazione femminile? Sì ed è proprio questo che incarnano i due personaggi femminili: Rose, che viene dalla provincia, ha uno stile molto anni ’50, mentre Marie, che abita in città e dispone di più mezzi economici, ha uno stile inizio anni ’60, con le sue fasce nei capelli, i suoi gilet e i suoi pantaloni corti. È difficile distinguere quanto dipende dai vincoli della cultura dell’epoca e quanto è attribuibile alle scelte personali delle donne.
Come possiamo caratterizzare il suo personaggio?
È una femminista che ignora di esserlo. La cosa che mi faceva un po’ paura nel fatto che il film sia radicato negli anni ’50 è che all’inizio Rose potesse sembrare sottomessa. Ma in realtà è una combattente, è determinata, è un’autentica «Rocky» al femminile, senza esserne consapevole. Però è maldestra e non ha fiducia in se stessa. Ma si rivela molto più forte di Louis. In realtà, ci rendiamo conto che è lui ad avere una vera lacerazione, molto più di Rose. Per questo i ruoli piano piano si invertono, grazie alla loro relazione amorosa. Ed è questo che è magnifico.
Per un attimo sembra che il successo le dia alla testa…
Avevamo voglia di fare oscillare il personaggio per spingere il pubblico a preoccuparsi un po’ e a dire «Ma è impazzita? Non è la Rose che abbiamo visto finora!». Quindi abbiamo girato due o tre scene in cui in effetti non è più se stessa. Nella sequenza con Nicolas Bedos, per esempio, è una ragazza diversa: volevo quasi che ci fosse un errore di recitazione perché si capisse che c’è uno scarto rispetto al resto del film e che poi lei ritorna con i piedi per terra. Ci tenevamo a mostrare anche le sue debolezze.
Che cosa piace a Rose di Louis Echard?
La sua aura. Lo considera un bel ragazzo ed è incantata dalla sua educazione e dal suo status sociale. Penso anche che si lasci impressionare dal fatto che è il suo capo, anche se si schermisce. In fondo, Rose è una grande romantica, una fan di Audrey Hepburn e Marilyn Monroe, e il suo lato romantico la spinge a infatuarsi di Louis Echard perché ha voglia di una grande storia d’amore con un bell’uomo, un po’ più grande di lei che porta bene la giacca e la cravatta. In più, lo trova commovente: quando scopre che è meno sicuro di lui di quanto si possa credere, si scioglie. Del resto è proprio in quel momento che si innamora di lui. Mi piace molto l’idea che si invaghiscano uno dell’altra in più riprese: prima tra loro c’è il colpo di fulmine, poi Louis si ricrede, sino al ribaltamento finale.
Per amore, non esita a prendere le difese di Louis davanti a suo padre…
È tipico di Rose questo! Di fatto in quella scena si comporta come fa con Louis. È più forte di lei: non è semplicemente capace di stare zitta. Inoltre, ha bevuto un po’ ed è la prima volta in vita sua che è brilla. E, più che altro, credo che l’atteggiamento del padre di Louis la indigni profondamente: attraverso la sua irritazione, non solo lancia un messaggio al suo innamorato, ma esprime anche quello che vorrebbe dire al suo stesso padre.
Come è stato il suo rapporto di lavoro con Romain Duris?
È stato un vero piacere recitare con lui. Ad ogni ripresa riuscivamo ad esprimere qualcosa di nuovo e di intrigante. È un attore che si pone delle domande, che è in costante ricerca ed è molto esigente. Abbiamo sentito un’alchimia tra i nostri due personaggi e ci siamo passati bene la palla. E, come è naturale, quando uno dei due variava leggermente la sua recitazione, costringeva l’altro a cambiare. C’era un vero e proprio spirito di emulazione tra noi.
Régis Roinsard è molto esigente con i suoi attori?
È di una precisione assoluta, che a volte rasenta la maniacalità. Avevamo la stessa chiave di lettura del personaggio, quindi sul set non ci sono state tensioni. Sa essere intransigente quando è necessario e in quei casi non ne lascia passare una. Del resto, io credo sia importante che un regista abbia una visione forte. Nello stesso tempo, Régis sa ascoltare gli attori e i tecnici e fare tesoro dei suggerimenti più validi, per migliorare un ambiente, la recitazione di un attore, un dialogo, ecc. Alla fine delle riprese, ho avuto la sensazione di aver goduto di una grande libertà ed è stato il film che mi ha visto più partecipe, persino nella scelta dei costumi e delle acconciature e nella riscrittura di alcuni dialoghi. Trovavo, per esempio, che alcune battute suonassero un po’ troppo «da ragazzina» e che non fossero abbastanza femministe. I due cosceneggiatori sono stati
estremamente comprensivi e hanno accettato di incorporare le modifiche che avevo suggerito. È stata straordinaria la sensazione di coinvolgimento totale in ogni singola tappa del film e di costante confronto.
Le ha fatto piacere portare i vestiti e le acconciature degli anni ’50?
L’ho adorato! Molti dei costumi sono stati ideati apposta per il film e io ho potuto modificarli parlandone con la costumista. Spesso la consultavo per sapere se un determinato completo era coerente con l’epoca o se una data scollatura era in linea con il personaggio. Abbiamo lavorato insieme in particolare riguardo all’abito rosa alla fine del film. All’inizio, non avevamo affatto scelto il bustier che poi abbiamo tenuto e che io avevo adorato nella scena di COME SPOSARE UN MILIONARIO in cui le tre attrici arrivano in abito da sera a una cena. Era importante che io potessi muovermi nel vestito e che fossi sufficientemente a mio agio per cambiare senza difficoltà i fogli e maneggiare la macchina per scrivere. Ho fatto aggiungere un nodo a fiocco nel bustino e plissettare la gonna e abbiamo dato all’abito nel suo insieme una linea più a sbuffo per farlo assomigliare agli abiti da cocktail dell’epoca. La tonalità viene da una rivista degli anni ’50. E sono state le costumiste a proporre il magnifico tessuto in cui lo hanno realizzato: appena l’ho visto sono impazzita e ho trovato geniale che Rose chiudesse il film vestita di rosa davanti alla macchina per scrivere Japy rosa! All’inizio Régis lo trovava troppo cliché, ma con le costumiste ci siamo coalizzate per convincerlo e quando ha visto tutte le ragazze in estasi per il tessuto si è arreso!

Intervista con Bérénice Béjo

Come è arrivata a questo progetto?
Quando, nel settembre dell’anno scorso, mi sono ritrovata tra le mani la sceneggiatura, non l’ho più abbandonata: mi è sembrata perfettamente elaborata e finita e il racconto aveva qualcosa di preciso e di sincero. E, soprattutto, la storia mi ha commosso. All’inizio ho detto al mio agente che il ruolo di Marie era forse un po’ troppo modesto. Ma quella stessa sera, mi sono resa conto che era una sciocchezza, perché il motivo per cui voglio recitare in un film è l’interesse che suscita la sceneggiatura e non la rilevanza della parte che interpreto! Ho quindi richiamato il mio agente per spiegargli che mi sarebbe piaciuto partecipare al progetto, anche in un ruolo secondario. Quando ho incontrato Régis Roinsard, ero entusiasta e ansiosa di fargli capire che ero pronta a stare al gioco, incarnando il personaggio con tutto quello che comportava: i bigodini, il grembiule, la retina per i capelli e il mattarello! Credo che la mia disponibilità sia stata una delle cose che lo ha affascinato. Non ho cercato di cambiare il personaggio né di abbellirlo perché desideravo interpretarlo così come era scritto. In seguito, per convincerlo, ho fatto alcuni provini, mentre ero incinta fino al collo! Ma lo avevo anche invitato alla proiezione stampa di THE ARTIST perché vedesse il mio modo di recitare.
Che sensazioni ha provato leggendo la sceneggiatura?
Sono rimasta subito colpita dal fatto che era misurata a regola d’arte, che ogni scena era stata meditata e che nessun dettaglio era stato trascurato. Non a caso nell’ambiente dei professionisti di cinema c’era una straordinaria aspettativa: tutti avevano sentito parlare di questo progetto. È molto raro leggere una sceneggiatura così completa dove non c’è bisogno di cambiare o di aggiungere una sola riga.
Marie, il suo personaggio, è un vero catalizzatore di emozioni…
È un aspetto che mi è piaciuto enormemente. Marie ha poche scene, ma ce n’è una molto importante in cui il personaggio interpretato da Romain Duris prende coscienza del fatto che non può ancora una volta lasciarsi sfuggire l’occasione di essere felice e di vivere un’esperienza intensa. È una sequenza molto forte che peraltro Régis aveva riscritto. Quando interpreto un personaggio secondario, il fatto che abbia almeno una scena in cui deve difendere strenuamente un punto di vista è una motivazione sufficiente per accettare di fare il film. Di fatto Marie spingerà un altro personaggio a realizzarsi e a schiudersi alla vita. Ha un’evoluzione e un percorso veri e propri e questo la rende particolarmente interessante.
Il lavoro sui costumi l’ha aiutata a costruire il suo personaggio?
Charlotte David, la costumista con cui avevo già lavorato sui due OSS 117, ha immaginato Rose Pamphyle come una giovane proveniente dalla provincia che si veste con graziosi abitini a fiori molto “bon ton”, mentre vedeva il mio personaggio in modo molto diverso. Poiché incarno una donna sposata con un americano che abita in una casa moderna, ha suggerito che indossassi soprattutto pantaloni e ballerine e questo mi ha molto aiutata a creare il personaggio. Per me, Marie appartiene già agli anni ’60! Tanto Rose è una ragazzina, quanto Marie è una donna moderna. Era molto importante che il pubblico potesse differenziarci molto rapidamente e che cogliesse in fretta la personalità di Marie, a maggior ragione visto che appare in poche scene. Analogamente, la parrucchiera ha scelto di farmi portare una parrucca poiché all’epoca si ricorreva molto di frequente alla messa in piega e alla lacca che impediva ai capelli il minimo movimento. Per coincidenza, avevo già interpretato personaggi collocati negli anni ’50-’60 e quindi sapevo che postura fisica adottare.
Régis Roinsard le ha chiesto di documentarsi sugli anni ’50 per calarsi meglio nella parte? Mi ha mandato delle fotografie. Per esempio, per la scena in cui Déborah François suona il piano, ha voluto che stessi seduta e incrociassi le gambe in un certo modo per corrispondere a un’immagine che aveva visto su una rivista. Ha anche voluto che indossassi le stesse scarpe e gli stessi pantaloni della donna di quella foto. È il suo lato ossessivo! (ride) Ogni regista manifesta le sue angosce da qualche parte e Régis, dal canto suo, aveva bisogno che l’atmosfera sul set fosse quasi identica agli anni ’50. Era una cosa che lo rassicurava molto.
Come dirige gli attori Régis Roinsard?
Sono arrivata tardi sul set, ma conoscevo già piuttosto bene la troupe e avevo avuto dei riscontri dal direttore della fotografia, che aveva firmato anche le riprese di THE ARTIST. Ho capito in fretta che Régis è meticoloso e preciso nella direzione degli attori, pur restando molto disponibile all’ascolto. E poiché a me piace essere diretta, siamo andati subito molto d’accordo! Avevamo fatto qualche lettura prima di iniziare a girare e quindi sapevamo dove stavamo andando. Quello che apprezzo molto in Régis, è che interviene sulla recitazione degli attori e non solo sulle inquadrature e sui campi. Insomma, nelle mie cinque giornate di riprese, mi sono molto divertita!

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