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National Gallery: Recensione in Anteprima del documentario di Frederick Wiseman

Frederick Wiseman prosegue la sua appassionata indagine con National Gallery, intrigante documentario su Arte, uomo e contemporaneità, attraverso un percorso che analizza il reciproco ed inestricabile relazionarsi di queste tre dimensioni attraverso il solito, immancabile approccio del regista statunitense

pubblicato 16 Giugno 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 00:50

Chi vuole dimostrare dieci anni di meno deve rivolgersi a un chirurgo plastico, chi vuole durare cento anni di più deve rivolgersi a un artista. (Camillo Langone)

Qualcuno diceva che l’arte più compromessa a partire dal secolo scorso fosse l’osservazione: si guarda ma non si vede. Da un lato lascia dunque un po’ l’amaro in bocca pensare che un certo tizio come Frederick Wiseman vada verso gli ottantacinque anni, esemplare di persona e professionista da preservare, o al peggio da cui apprendere ciò che di lui ci sta più a cuore, ovvero la sua arte. Quella di osservare, per l’appunto.

Con At Berkeley, tra le varie domande, Wiseman sembrava porsi quella relativa alla sostenibilità di un sistema così saldamente ancorato all’economia, per non dire dipendente da essa, in un periodo di ristrettezze. Se poi tale sistema riguardasse la formazione di una nuova classe, di una generazione a cui a breve toccherà confrontarsi con le beghe che andrà ad ereditare, la questione assume tutt’altra valenza. In altre parole, come può un’istituzione di quel tipo reggere le contingenze di una crisi economica devastante come questa? E come riuscire a mantenere certi standard? Prima ancora che l’istituzione, gli uomini e le donne che la compongono, sono preparati a tutto ciò?

Per il regista statunitense le chiacchiere stanno a zero: andiamo sul posto e riprendiamo quello che succede. Non senza filtri, è chiaro, perché il rapporto tra il girato e ciò che va a comporre il film (specie nel caso di At Berkeley) è all’incirca di 1/60; perciò una scrematura deve esserci ed è necessariamente a discrezione del regista. Eppure la capacità di Wiseman di innestarci in quel mondo e farci uscire solo quando lo dice lui è encomiabile, ed è ciò che essenzialmente l’ha reso il rinomato autore di documentari che è. Anche stavolta, con National Gallery, non si risparmia e costruisce questo ecosistema preesistente e indipendente come se fosse una sua rappresentazione. Cosa che non è.

Anche questo suo ultimo lavoro è mosso da certe specifiche curiosità, se non altro perché la situazione impone di soffermarsi su tematiche come crisi e modalità attraverso cui realtà così blasonate la affrontano. E si ha la sensazione che poco o nulla venga taciuto, mentre assistiamo ad una consultazione interna da parte di quello che presumibilmente è l’amministrativo, mentre i vari membri discutono in merito alle potenziali ricadute di una grossa maratona che gli organizzatori vogliono far terminare proprio di fronte al museo. Sia detto quasi en passant, i film di Wiseman non riguardano solo realtà intangibili come un’università, un ospedale, un corpo di ballo o un museo: attraverso tali riferimenti le dinamiche e le relazioni tra le persone sono in qualche modo sempre al centro.

L’esperimento operato in National Gallery aggiunge però qualcosa. In molti casi Wiseman si ritrova a fissare con la sua macchina da presa la gente che osserva i quadri mentre scrutano quei disegni o semplicemente fanno finta di averci capito qualcosa. Ma a cosa pensano mentre affacciano il proprio muso su delle epoche che vivono ancora attraverso quei dipinti? Non sapremmo dire se è questa la domanda che si è posto il regista, ma di certo è stata la nostra. National Gallery, il film-documentario, sono anche i visitatori del National Galley, il museo.

Ci si chiede a più riprese, talvolta senza nemmeno rendersene conto, come Wiseman abbia avuto accesso a certi momenti, come quando si sta allestendo la prossima mostra o nel corso del già citato meeting amministrativo. È in questi frangenti che l’istituzione, impalpabile e forse per questo apparentemente inaccessibile, passa in secondo piano, mentre i vari attori occupano la scena. Ed apprendi, in qualche modo, qualcosa di più su quello specifico indirizzo culturale, ma anche su una cultura in generale. Una donna ad un certo punto, s’intrattiene con il direttore, chiarendo che ciò che sta per dire non sarà affatto una critica: «ah ma io sono più che aperto alle critiche, anzi non chiedo altro», è più o meno la risposta. La donna manifesta il proprio pensiero, al che il tizio, gerarchicamente in posizione di evidente vantaggio, dopo aver attentamente ascoltato liquida tutte quelle osservazioni con altrettante, lapidarie considerazioni, che non hanno altro scopo se non quello di troncare la discussione e tornare alla situazione precedente a quel dialogo.

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È inevitabile che tale ambiente, in un modo o nell’altro, rispecchi ciò che si trova fuori. Le appassionate guide che illustrano i vari dipinti, tutte molto preparate e affabili, hanno un gran parlare di descrizioni, contesti e quant’altro in merito a quel particolare quadro, ma la prima loro preoccupazione è sempre quella di non prevaricare preventivamente sulle interpretazioni altrui. Uno di loro dice di essere sempre stato scarso in matematica perché in quest’ambito la risposta giusta è sempre una sola, privilegiando l’arte proprio perché, al contrario, ammette più risposte esatte. Tante quanti sono coloro che rispondono.

Wiseman passa dunque da un problema come quello di far quadrare i conti, a speculazioni più libere ma non meno importanti come quello di definire vagamente il concetto di arte. E ci vuole maestria per alternare un’ipotesi di bilancio con annessa prospettiva di tagli al personale e ridimensionamento dei progetti, a momenti in cui si tenta timidamente di capire cosa sia l’arte e a cosa possa servire oggi, proprio attraverso quei quadri che pretendono di essere osservati e non semplicemente guardati. Il tutto passando per il pienone alla mostra di Leonardo o attraverso l’illustrazione relativa alle nuove metodologie di lavoro in ambito di restauro – sapevate che il restauratore di oggi deve essere in grado di operare in tal modo che centinaia di ore di lavoro possano essere “cancellate” così, di punto in bianco, a beneficio del successivo restauro al medesimo dipinto?

Perché National Gallery ci parla anche di questo, ossia di arti nell’arte. Che perciò non è solo quella del restauratore, ma anche quella del critico, includendo in quest’ultima categoria non semplicemente la cosiddetta critica militante, quella specializzata (!), bensì ogni singolo fruitore dell’opera. Oppure coloro che allestiscono una mostra, così come chi “ammassa” tutta quella mole di tele, i collezionisti, perché come ha detto proprio il collezionista Davide Halevim: «Collezionare è un modo per rimanere immortali», dunque, se è vero, tale pratica non può che essere eminentemente artistica. Ma su tutte, probabilmente, quella che bazzica lo stesso Wiseman, ossia l’arte di raccontare.

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Così, quando un ragazzino o una signora sono intenti a riprodurre (o che so io) uno di quei dipinti, mentre la macchina da presa spia i loro schizzi, allora si assiste quasi al ristabilimento di un ordine: a noi, avanzatissimi posteri di cotanti antenati, che sia il poeta Tiziano piuttosto che lo scapestrato Caravaggio, non resta che tentare di apprendere l’arte insuperata di quei maestri appartenuti ad un mondo così lontano e meno “evoluto” del nostro.

Ma poiché nelle tre ore di National Gallery, come spero si sarà oramai compreso, lo sguardo si posa su un mondo intero, vivo e vibrante, c’è spazio anche per una barzelletta. Un anziano signore ed una giovane donna si accostano ad un quadro in cui è raffigurato Mosè. Al che l’attempato vecchietto dice di conoscere una barzelletta proprio sul celebre profeta: «la vuole sentire?», «certo!», risponde la signorina. «Allora, Mosè ha appena ricevuto le tavole con i comandamenti dal Signore. Al che scende in fretta e furia dal Monte Sinai, rivolgendosi agli israeliti: “Fratelli, il Signore ha parlato, incaricandomi di mettervi a parte dei Suoi comandamenti”. La folla mormora, mossa dalla curiosità. “Tuttavia ho una notizia buona ed una cattiva. Da dove volete che cominci?”, replica Mosè. E l’uditorio: “Parti da quella buona!”. “Va bene. La buona è che ho ottenuto da Lui che si fermasse a dieci. La cattiva è che tra questi dieci c’è ancora l’adulterio”».

Voto di Antonio: 9
Voto di Gabriele: 9

Festival di Cannes