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Collateral Beauty: recensione in anteprima

Opera dall’impronta scomodamente teatrale, Collateral Beauty è la sagra del dolore che si fa intrattenimento, con il cast più blasonato ma peggio impiegato dell’anno

pubblicato 19 Dicembre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 03:09

Howard (Will Smith) è un pubblicitario di successo che, insieme a Whit (Edward Norton), Claire (Kate Winslet) e Simon (Michael Pena), ha fondato una grossa agenzia operante nel settore. Collateral Beauty parte alla carica con questo discorso motivazionale del nostro, che ci parla di come il team sia importante, la base di ogni degno traguardo. Tre anni dopo il mondo di Howard però si capovolge: la perdita della figlia lo ha stravolto a tal punto che ha perso interesse per tutto, specie per la bella realtà che ha fondato. Scrive lettere alla Morte, all’Amore e al Tempo, temi che evidentemente lo tormentano, togliendogli il sonno. Un giorno però Whit ha un’idea: e se rispondessimo a queste lettere ingaggiando degli attori che interpretino i tre destinatari?

Da subito, senza nemmeno mezzi termini, tutto è molto teatrale. Collateral Beauty si basa su dei presunti legami che però non ci sono, salvo non voler considerare un legame il fatto che ciascuno dei personaggi abbia dei seri problemi: Whit è odiato dalla figlia dopo un matrimonio fallito, Claire intende affidarsi all’inseminazione artificiale perché crede che oramai sia troppo tardi per trovare un uomo, Simon soffre di una malattia che ha già combattuto in passato e che a quanto pare stavolta lo porterà alla tomba. Amore, Tempo e Morte. I tre attori, rispettivamente interpretati da Keira Kightley, Jacob Latimore ed Helen Mirren sono tre spiantati che cercano di mettere su uno spettacolo ma che finiscono per scendere dal palco e recitare nella vita reale, occupandosi ciascuno non solo di Howard ma pure dei suoi tre soci.

È il modo in cui però si fa leva su certe tematiche ad affossare il lavoro di David Frankel, che poco può fare alla luce di una sceneggiatura di questo tipo. Una sproporzione tremenda tra le ambizioni e gli esiti perciò, ma non solo; anche il tono non trova un suo equilibrio, oscillando tra momenti di profonda tristezza ad altri più leggeri ma a tratti inopportuni. Certo, l’eccessiva rarefazione della storia pesa, ma dopo due ore il titolo rimane oscuro e di quella «bellezza collaterale» non si ha contezza in alcun modo. Il gioco tra realtà e finzione rappresenta una scommessa persa, tali e tante sono le forzature, certi luoghi comuni ed una piattezza di base che ci consegna personaggi ai quali si stenta a credere, figuriamoci a legarvisi.

Ma in fondo sono queste le storie che piacciono a Will Smith, che il film l’ha pure prodotto; storie in cui il rapporto padre/figlio è in qualche modo centrale. Solo che Collateral Beauty ha in più l’essere un’opera corale, in cui convergono più drammi, tutti gestiti in maniera approssimativa e pure banalotta. Far leva su questioni che ci riguardano tutti, chi più chi meno, e maneggiarli con così tanta superficialità rappresenta un’operazione che si squalifica da sé, così bramosa di strappare lacrime e consensi. Con l’aggiunta di questo escamotage narrativo totalmente fine a sé stesso, del tutto slegato da una storia che perde ulteriore mordente alla luce di questo meccanismo come già detto così teatrale.

Collateral Beauty è il classico film che si presta più alla raccolta di aforismi da schiaffare su un social a caso, alcuni smielati altri semplicemente sciocchi. Ed è delicata la cosa, perché di mezzo ci sono fattispecie non esattamente concilianti, che servono ad altro anziché essere servite. Un ventaglio di sentimenti troppo ampio, con il quale ci si confronta in maniera finanche fastidiosamente superba, più che altro poiché ci si crede all’altezza di trattare certi temi senza scadere nel ridicolo, esito che, al contrario, non si riesce proprio ad evitare – la figlia di Whit, che dopo aver annichilito il padre con un odio mica da poco, improvvisamente cede come fosse schizofrenica, di certo non per l’insistenza del genitore.

Film perciò paradossalmente vuoto, che delle disgrazie intende tutt’al più fare intrattenimento: obiettivo che persegue consapevolmente, senza approdarvi per sbaglio. Così povera e quasi teneramente limitata è la prospettiva alla base di Collateral Beauty, che più che altro lascia interdetti la scomoda impressione per cui davvero il senso della vita e delle cose per chi lo ha concepito possa essere tutto qui. A suggerircelo è la sguaiata elaborazione del discorso, che mette in rilievo la totale assenza di preoccupazione circa la possibilità di filtrare siffatta congerie d’insulsaggini a buon mercato in maniera più discreta. Al contrario, Collateral Beauty vorrebbe stravolgerti come una cura Ludovico al contrario, anestetizzandoti mediante la fiera del dolore.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”2″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”3″ layout=”left”]

Collateral Beauty (USA, 2016) di David Frankel. Con Will Smith, Edward Norton, Kate Winslet, Michael Peña, Helen Mirren, Naomie Harris, Keira Knightley, Jacob Latimore, Enrique Murciano, Kylie Rogers, Natalie Gold e Liza Colón-Zayas. Nelle nostre sale da mercoledì 4 gennaio 2017.