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La desolazione del Drago e l’inventiva di Jackson

Con La desolazione di Smaug la saga de “Lo Hobbit” prende lo scarto decisivo verso l’avventura più epica e oscura. Un capitolo che va ad incastonarsi perfettamente in un disegno complessivo sempre più definito e compatto.

pubblicato 15 Dicembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 06:09


E alla fine arrivò Smaug…
Quel film “a lungo atteso” e capitolo due assai temuto, anche perché pellicola cruciale sulla quale grava il non facile compito di definire tono e passo successivo della neo-saga voluta da Peter Jackson. Una trilogia, la sua, iniziata un anno fa con film flemmatico sì ma anche, come fonte letteraria impone, godibile e giocoso. Quel Viaggio inaspettato che, fra strofe ossequiose e goblin corpulenti e danzanti, si propose un anno fa quasi come una sorta di “extended version” del capitolo uno (e infatti non tutto il pubblico cinematografico lo “metabolizzò” completamente).

Inevitabile che, dopo le perplessità suscitate nei più con quel film, “La desolazione di Smaug” giungesse in sala con un carico di attese (ma soprattutto di “pretese”) ancora più elevato sulle spalle. La classica pellicola pronta già ad essere scomposta ed indagata attraverso la lente del fan rigoroso ed entusiasta (che cercherà magari inutili raffronti con lo speculare capitolo due della trilogia-principe), o magari vivisezionata dalla pignoleria dei tolkeniani doc, categoria che al minimo si incendierà di fronte alle numerose espansioni, gli inserimenti o i discussi passaggi di tono dal verde-avventura del primo capitolo al nero-corruzione di questo secondo.

Signore e signori, benvenuti nel regno del drago Smaug, ma soprattutto in quello del libero adattamento “cinematografico”, territorio rischioso senz’altro ma anche luogo di sfide eccitanti e provocazioni che, se non trascendono l’ accertata (e ormai accettata) speculazione commerciale di una trilogia cavata fuori da 350 pagine di racconto, quantomeno “adornano” il calcolo con ingredienti piuttosto rari al giorno d’oggi nel cinema d’intrattenimento. E cioè una passione sincera per l’universo letterario affrontato e l’amore sconfinato nei confronti della narrazione cinematografica.

Peter Jackson di sicuro non difetta né dell’una né dell’altro. Ecco perché “La desolazione di Smaug”, nonostante le forzature, qualche perdonabile battuta-trash e un ritmo che abbandona il contemplativo per abbracciare l’azione tout-court (con momenti da rocambolesco luna-park), funziona bene. Anzi così maledettamente bene da far rimpiangere perfino l’assenza di qualche momento disteso o giocoso tipico della storia originaria (sulla pagina l’introduzione di Beorn era un momento decisamente umoristico che speriamo venga recuperato nella versione estesa).

E se “ogni riferimento a fatti, cose o persone della prima trilogia non è assolutamente casuale” è pur vero che questo secondo capitolo non potrebbe mai essere rivisto sotto la stessa lente che ha caratterizzato l’idea strutturale della saga che l’ha preceduta (e che cronologicamente seguirà). Basta guardare l’incipit che, per la prima volta dopo ben quattro film, appare privo di spettacolari scene-madri che precedono il titolo. L’azione (se così si può dire) inizia in modo dimesso alla locanda del Puledro impennato dove assistiamo all’incontro fra Gandalf e Thorin, momento che precede (e poi giustificherà) l’invasione iniziale di nani alla casa del mite Bilbo Baggins.

Un flashback breve e sottotono, benché importante e determinante, col quale Jackson sembra voler quasi esprimere il suo manifesto di “libero adattatore tolkeniano”, sempre intento (complice una moglie- sceneggiatrice assai devota al professore) a condurre lo spettatore nei meandri di ciò che non è stato mai del tutto narrato (come la lotta fra Balrog e Gandalf che introduceva “Le due torri”) o che al più è stato sottilmente suggerito. E quella filosofia, già linea-guida fondamentale per imprimere dinamismo all’adattamento del “Signore degli anelli”, si dimostra ancora più determinante nel processo di rielaborazione compiuto sullo snello tessuto narrativo della fiaba originaria “Lo Hobbit”. Non intendiamo (troppo superficialmente) un simile lavoro come un pretenzioso prolungamento dei tempi, perchè quello operato da Peter Jackson è un processo di interpolazione letteraria consapevole soprattutto delle esigenze cinematografiche e fondato su un sapiente gioco di richiami con il suo stesso pubblico. Un gioco che ha le radici ben salde nell’arte maestra dell’affabulazione.

Perché qui non si tratta solo di far mutare pelle a un Hobbit facendo gemmare anzitempo in lui la dipendenza dall’anello, ma anche di mostrare l’evoluzione che le ragioni dei giusti subiranno nel corso della storia (altrimenti potremmo intendere il modo in cui “quel” male germoglierà ancora e altrove?). Allo stesso modo trasformare la fuga tranquilla dei nani dentro le botti in una rocambolesca giostra acquatica orchestrata con perfezione geometrica, non è lesa maestà letteraria quanto piuttosto il frutto di una fantasia infantile; chi può negare infatti che chiudendo gli occhi ciascun bambino non reinventi ancora e ancora la “sua” fiaba? E poi spunti, vecchie conoscenze (Legolas) introdotte a forza e personaggi nuovi nati dalla costola di altri già noti (l’elfa Tauriel modellata evidentemente sulle caratteristiche più guerresche di Arwen), tutti elementi che si incontrano e si fondono mirabilmente sull’altare di una narrazione che non conosce altre misure se non quella di un intrattenimento realizzato con razionalità e sostenuto dalle ragioni del cuore di un vero appassionato.

Si attirerà critiche (anche lecite) dai puristi ma nessuno potrà mai negare che Jackson, attraverso “La desolazione di Smaug”non soltanto ha costruito una pellicola che incanta con la sua concezione dell’avventura e la sapiente progressione verso il conclusivo confronto (osando coraggiosamente un finale “tronco” come ai vecchi tempi), ma ha fatto anche un ulteriore passo avanti verso quell’operazione di cesellamento e organizzazione del “suo” universo tolkeniano, quell’universo in cui personaggi, eventi ed elementi tenderanno al termine di tutto a posizionarsi ed allinearsi, fino a convergere iconicamente verso un unico e imponente affresco cinematografico (un’esalogia a tutti gli effetti).

La sua è quindi un’ambiziosa opera omnia in divenire che rivendica, soprattutto per mezzo di questo libero ed impudente adattamento di una “porzione” di racconto, niente altro che il meraviglioso piacere di raccontare, magari trasfigurando la fiaba infantile nell’epica della maturità e liberando la fantasia verso lande imprevidibili quasi quanto quelle calcate da Bilbo & Co.

Dopotutto “la fantasia è una naturale attività umana, la quale certamente non distrugge e neppure reca offesa alla Ragione; né smussa l’appetito per la verità scientifica, di cui non ottunde la percezione. Al contrario: più acuta e chiara è la ragione, e migliori fantasie produrrà”. A dirlo è proprio il Professor Tolkien in “Albero e Foglia”. Come potremmo non credergli?