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Frankenweenie, Tim Burton e il cinema “ritornante”

Un omaggio a Tim Burton e al suo nuovo film in stop-motion, Frankenweenie.

pubblicato 17 Gennaio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 18:35


Che il cinema di Tim Burton sia interpretabile come un’immensa, incontenibile celebrazione della diversità è cosa talmente nota a tutti da essere divenuta quasi una tautologia. Un arabesco intinto nel nero e nel viola, architettonicamente perfetto e prospetticamente obliquo, che si va componendo pian piano da oltre un quarto di secolo e per mezzo del quale il regista si è divertito a riscrivere lo stesso alfabeto del cinema fantastico o a riconvertire la logica interna delle fiabe.

Una salutare seduta di psicanalisi per uno come lui che in giovinezza campava disegnando rassicuranti nemiciamici per la Disney (“Red e Toby”) e la notte rilasciava ben più amati incubi animati a passo uno, magari illuminati dallo stesso technicolor di un Hammer.

E di questo convegno siamo stati tutti felici invitati negli ultimi 25 e passa anni, perché guardare un corto come “Vincent” o perdersi dietro la follia cartoonesca di un “Bettlejuice”, significava essenzialmente partecipare a un colorato festival di ossessioni altrui ma anche, innegabilmente, un po’ nostre, per quanto ben celate dietro tanto zucchero “animato”.

Ci voleva solo un abile maieuta delle immagini per far venir fuori questa poesia “alternativa” e farla adorare anche dallo spettatore comune, improvvisamente catapultato dentro spire di plastilina tanto simili a terminazioni nervose e contaminato, in modo irreversibile, da un’ironia tanto acida e strabordante quanto spassosa e coerente.

I primi ad essere colpiti da questo morbo sono stati naturalmente i “nerd” poi, a seguire, tutti gli altri (ma non fidatevi troppo di chi sfoggia borse e portafogli con l’effigie di Jack Skeletron: spesso ignorano il film almeno quanto certi pseudo no-global ignorano il Che Guevara fieramente esibito in t-shirt!).

Oggi, dopo che la visione del regista ha fatto scuola (Nightmare before Christmas, Edward mani di forbice), l’immaginazione (burtoniana) è salita finalmente al potere ma si è anche ibridata (pericolosamente) con il sistema, concedendosi il lusso di tornare alla fiaba (Alice) e perfino allo stesso ovile da cui era fuggita (la Disney).

Contenti i bambini (col merchandise), gongolanti gli esercenti (grazie al 3D), un po’ traditi i burtoniani di “primo letto” che si ritrovano costretti a scandagliare gli angoli dello schermo per rintracciare lembi della passata poesia dei freak (la regina di Alice e il suo stuolo di accondiscendenti cortigiani) o dell’acido umorismo del passato (le gustose uscite di scena musicali dei bambini ne La fabbrica di cioccolato).

Sarà che “Big Fish”, per quanto splendido, ha anche inevitabilmente ricondotto la creazione fantastica dell’autore al suo meccanismo fondativo, sancendo una verità quasi sepolcrale: muore il narratore, si svela l’artificio.
Forse è per questo che le opere successive, per quanto godibili (chi scrive le ama più o meno tutte, nonostante la parziale eccezione di Alice), sembrano letteralmente frutto di una calcolata determinazione a voler stupire a tutti i costi, a “evidenziare” più l’abilità di chi dirige che ha dare consistenza materica all’invenzione stessa: ci si guadagna forse in perfezione (vedi l’algida computer graphic che ha sostituito le amate scenografie di cartapesta), ma si perde anche in sincerità, abbracciando troppo disinvoltamente un certo manierismo.

Perché davvero una sposa cadavere (per quanto sia perdutamente innamorato del personaggio di Emily) può ripetere la poesia malinconica di Jack Skeletron, afflitto dal vuoto nell’anima e nel cuore? E il Willy Wonka del sempiterno Depp potrebbe mai rievocare la struggente assenza paterna evocata nel capolavoro “Edward mani di forbice”?

Meglio non interrogarsi troppo su quanto ultimamente Burton-regista sia stato meno “incisivo” del Burton-Trade mark. Anche perché quest’anno tante certezze sono saltate grazie a un ritorno degno di nota (“Dark Shadows”, per quanto bistrattato, a mio avviso resta uno dei suoi film più sperimentali e personali da molti anni a questa parte) e alla doppietta che il regista promette di fare grazie a “Frankenweenie”, impagabile rifacimento in favola e stop-motion di un corto degli esordi. La tiepida accoglienza del pubblico forse dimostra meglio di qualsiasi consenso che Burton è tornato davvero su sentieri più personali.

Ricorrono qui tutti i luoghi-ossessione del regista (il laboratorio, i mostri umani al di là degli steccati, il poeta dietro il folle), quasi una parata in cui vanno a convergere tutti i motivi del suo cinema nonché un’ occasione per dimostrare al mondo, nonostante questo esulti solo per i Madagascar e Le ere glaciali, che una diversa immaginazione è ancora possibile.

Forse questo ritorno coinciderà con l’Oscar (noi glielo auguriamo di cuore) o forse no, ma di sicuro, per tanti, anche non più giovani, estimatori nerd, significa soprattutto che il suo è un cinema ancora vitale. Cinema che, proprio come un Frankenstein, è fatto ancora (come Sleepy Hollow docet) di pezzi trafugati da altri immaginari, apparentemente morti solo finchè non arriva qualcuno tanto abile da (ri)metterli insieme e infondere loro una nuova vita. E nel far questo Tim Burton resta ancora il nostro Victor preferito.

(Per vedere il disegno in alta risoluzione cliccateci sopra). Ed ecco la nostra recensione del film Frankenweenie.