Home Hayao Miyazaki Di cosa parliamo quando parliamo di Hayao Miyazaki: appunti su Nausicaä della Valle del vento

Di cosa parliamo quando parliamo di Hayao Miyazaki: appunti su Nausicaä della Valle del vento

Un approfondimento su Nausicaä della Valle del vento contestualizzato nell’ambito dell’opera del maestro Hayao Miyazaki e della sua filmografia

pubblicato 3 Ottobre 2015 aggiornato 20 Novembre 2023 11:14

A pochi giorni dall’uscita nelle nostre sale (5, 6 e 7 ottobre) tentiamo di estrapolare qualcosa dal testo di Nausicaä della Valle del vento, soffermandoci per forza di cose su Hayao Miyazaki e ciò che agita le sue opere

Parafrasando il titolo di un classico carveriano, mi accingo a buttare giù alcune righe su uno dei cineasti più celebrati ma al tempo stesso meno classificabili ancora in circolazione. Non a caso cineasta potrebbe risultare riduttivo, se non altro perché si parla anche di un disegnatore, scrittore, sceneggiatore e cantastorie in generale. È successo che in questi giorni ho avuto l’opportunità di vedere Nausicaä della Valle del vento per la prima volta in sala. Indispensabile o meno che fosse, la proiezione mi conferma nell’idea che il grande schermo sia il luogo dove i sogni di Hayao Miyazaki trovano maggiore compimento.

Tuttavia ciò che mi ha spinto a dedicare addirittura un pezzo in concomitanza con l’uscita del film (disponibile nelle sale per tre giorni, come al solito) non è tanto il desiderio di raccontare quanto sia bello vedere il film del maestro giapponese su un pannello gigante. No. In particolare è stata una domanda, giunta a fine proiezione. Anch’essa, come ha fatto la proiezione in relazione al luogo privilegiato per la visione dei film di Miyazaki, mi conferma in qualcosa, sebbene meno edificante, ossia che l’animazione giapponese è davvero affare per pochi. Mi spiego meglio.

Partiamo dalla domanda: «Ma alla fine chi è il cattivo? No perché non si capisce». A priori ritengo pressoché ogni domanda lecita, anche quelle apparentemente meno fondate, dunque non mi “indigna” (!) né mi sorprende oltremodo che un seppur valido critico cinematografico la ponga. Questo però non mi esime dal pormele io stesso delle domande, che grossomodo vertono tutte su un quesito: mediamente la gente cosa cerca da un’opera di questo tipo? E perché?

Non me la sento di farne un discorso generazionale, sebbene sempre più provvidenziale appare quell’Oscar a La città incantata, senza il quale oggi probabilmente non solo Miyazaki ma l’animazione giapponese tutta sarebbe rimasta relegata ad una nicchia ancora più nicchia di quanto non sia rimasta in ogni caso. E sia chiaro, non scrive un esperto, ma un appassionato senz’altro; passione che sono disposto a difendere a spada tratta se necessario.

All’indomani della proiezione mi è stata rivolta un’altra domanda, ancora più legittima di quella precedente, ma che denuncia all’incirca la stessa tendenza: «Non lo hai trovato un po’ lento (il film)?». Già nel 2013 ebbi modo di evidenziare che un capolavoro come Si alza il vento rischiava di passare in sordina, gli stessi estimatori (anzi, soprattutto loro) non del tutto appagati da un Miyazaki che tira fuori il film più sentito e personale della sua intera carriera (sul migliore, medio o peggiore si può discutere all’infinito, perciò non m’interessa farlo). Ciò che sostengo, senza convincermi di esserci arrivato prima di tanti, troppi altri, è che l’originalità ha sempre un prezzo, e che, esoso per quanto possa apparire, va tutelato senza se e senza ma.

Perché dirsi contrariati o non avere apprezzato un film come Nausicaä della Valle del vento in virtù del fatto che Miyazaki non ci indichi in modo categorico chi sia il «cattivo» significa semplicemente essere vittima di un equivoco. Lasciate perdere la puzza sotto il naso e sciocchezze di siffatta risma; qui si tratta di evidenziare le cose così per come stanno, e nel caso di specie non stanno tanto bene. D’altro canto è annosa la questione relativa ai cosiddetti criteri oggettivi in ambito di critica cinematografica (ma non solo), per cui servono ed infatti esistono degli strumenti, dei codici più o meno accettati che consentano di parlare e parlarsi riguardo ad un film piuttosto che a un insieme di film, dopodiché intendersi riguardo a ciò che si è detto. Non sia mai “concordare”, ché la concordia è quanto di più lontano sia concepibile rispetto alla pratica della critica, in qualunque ambito.

Tornando a noi, la risposta più immediata e spontanea alla domanda “galeotta” è stata: «nei film di Miyazaki non esistono cattivi. Solo eroi e conflitti». Di rado capita di poter in tutta sincerità confermare una risposta pronunciata di getto, senza star lì a ragionarci troppo, e questa è una di quelle occasioni. Perché è così, nei mondi di Miyazaki, che si tratti di una ragazzina rimasta prigioniera in una città incantata, di un’altra che non riesce più a volare (Kiki – Consegne a domicilio), del confronto con la malattia che affligge persone care (Il mio vicino Totoro, Si alza il vento), di una strega minacciosa (di nuovo La città incantata, Il castello errante di Howl)… insomma che si tratti di queste ed altre situazioni, il Male non è che un accidente.

Attenzione, non è che non esiste. Esiste eccome, e di Miyazaki tutto si può dire fuorché in tal senso si mostri mai accondiscendente o addirittura conciliante. Ciò che rifiuta, a mio parere consapevolmente oltre che categoricamente, è la forzata personificazione del Male. Ed in questo non si mostra affatto innovativo, innestandosi piuttosto nel solco della tradizione a cui appartiene, per cui il Male e ciò che ne consegue sono parte integrante dell’esistenza. Ma la vera differenza rispetto alla cultura occidentale, con particolare riferimento a quella post-cristiana, sta nella risposta a tale consapevolezza: nella cultura nipponica, per lo meno nel filone tramandato da filosofi-guerrieri quali Tsunetomo Yamamoto e Miyamoto Musashi, senza dubbio i più celebri dalle nostre parti, la vendetta così per come la intendiamo noi è semplicemente una forma di bruttezza. Un’azione brutta insomma, perché egocentrica, fine a sé stessa, sbilanciata.

Bruce Wayne, che diventa Batman a seguito dell’apprendistato in Oriente, stabilisce per sé stesso una regola ed una soltanto: non uccidere. Non do per scontato che Bob Kane e Bill Finger siano andati al di là del mero moralismo, così tipico nella società americana del loro tempo, ma credo fortemente in quelle derive involontarie per cui da un punto A ad un punto B si approdi malgrado la consapevolezza dell’autore/scrittore/sceneggiatore, specie se particolarmente dotato. Perciò sì, Batman, che attraverso l’insegnamento delle arti marziali ne ha assimilato la filosofia alla base, non uccide prima di tutto perché è “brutto” farlo, non per questioni del tipo «il diritto alla vita è sacro e inviolabile» per tutti e per ciascuno. Vivere, per questa categoria di persone, non è mai stato un diritto, tanto che, senza pensarci due volte, erano più che disposti a togliersela la vita per essersi macchiati di un qualcosa che ritenevano una colpa. L’onore anzitutto.

Anche per questo, deduco, gli eroi ma soprattutto le eroine delle storie di Miyazaki, pur se manifestamente contrariate dalle forze che combattono, non mostrano mai segni di cedimento in tal senso. Per l’eroe il conflitto è l’ineludibile passaggio verso la realizzazione del proprio percorso, che non va ostacolato né tantomeno rifiutato bensì affrontato. Perché è “bello”, nel senso in cui gli antichi greci intendevano la Bellezza. In Nausicaä della Valle del vento, per esempio, la giovane principessa scorge naturalmente dove il Male si annida; il dono che il saggio Yupa le riconosce potrebbe essere proprio questo, ovvero la sua capacità di focalizzarsi su di esso eliminando a priori i sentimenti superflui; non, come appare in superficie, il semplice fatto che la ragazza riesca ad instaurare una particolare sintonia con ogni tipo di razza animale (uomo incluso).

Per questo la disputa tra i regni di Tolmechia e Pejite non la infiammano manco per nulla, malgrado la loro guerra abbia portato paura e distruzione persino in quel lembo di terra ancora vergine e paradisiaco che è la Valle del vento. Qui però interviene la mitologia, il mito, per cui l’eroe vive il suo destino che, nel caso di Miyazaki, non è mai mera tragedia. Il cineasta fa convergere talmente tanti livelli che l’idea stessa di seguirne ciascuno singolarmente non è soltanto poco praticabile, ma fortemente sconsigliato. Attingendo da leggende, tradizioni, racconti popolari, che sempre, in un modo o nell’altro, confinano con il “religioso”, anche qui viene fuori un ritratto spiazzante perché essenzialmente originale e pregno. Confermando peraltro la propensione olistica di ogni sua opera, anch’essa espressione della plurisecolare tradizione alla quale implicitamente si rifà, per cui il tutto è maggiore della somma delle sue parti.

Difatti il testo nemmeno si presta più di tanto a forzature ideologiche, come quella, immediata, relativa ad una lettura di stampo ecologista: tematica forte in Nausicaa, altroché, ma anche in questo caso espressione di ben altro. La Natura nei racconti di Miyazaki è contraddistinta da un’impronta divina, come fosse un’emanazione del divino stesso, al quale è legata indissolubilmente; a mio parere il maestro non arriva mai a teorizzare un vero e proprio panteismo, interessato com’è a proporre ambienti e contesti in cui cielo e terra si toccano, senza escludersi a vicenda e senza alcuna gerarchia. Va infatti compreso che, anche quando viene citato Dio nei film di Miyazaki, non è possibile traslare il concetto così per come ci viene spontaneo pensarlo. Per intenderci, la conversione uno-a-uno non è fattibile, data la distanza rispetto ad una cultura, la nostra, di stampo giudaico-cristiano, quindi molto lontana da quella in cui si è formato il nostro. No, laddove vi è menzione, si dà per scontato l’esistenza di più dei, o per meglio dire divinità. Nel caso del film in questione non si registra nulla di tutto ciò, ma questo non significa che il mistero ed il soprannaturale non permeino la storia nel suo insieme.

C’è di più: l’epilogo, nelle sue implicazioni filosofico-teologiche, si potrebbe addirittura assimilare al concetto di santità cristiana (qualcosa di analogo avviene in Principessa Mononoke). Nausicaä, che già in vita viene venerata dalla sua gente in forza delle sue doti non comuni, per portare a termine il proprio percorso deve inevitabilmente passare dalla morte mediante martirio, cioè l’estremo sacrificio. Anziché dissolversi, però, divenendo puro spirito, assimilato o meno al tutto cosmico, come all’incirca tramandano e credono certe tradizioni religiose e non venute dall’Oriente, la ragazza riprende possesso del suo corpo, lo stesso attraverso il quale si è purificata e con lei ha purificato il mondo intero. Un concetto che, volente o nolente, per logica sottintende un’entità che tutto e tutti sovrasta, quale che sia il nome che ad essa vogliamo dare. Chiamiamola Giustizia, che è una delle peculiarità del Dio cristiano, che non è, come si sente dire in questo periodo, solo Misericordia; allora scopriamo che il sacrificio di Nausicaä ha un senso, l’unico che è possibile affibbiargli, ossia quello di aver placato non l’ira, concetto per lo più afferente a certa corrente giudaica da Antico Testamento, bensì il sommo desiderio di equilibrio.

È questa la parola chiave, quella con cui ogni storia raccontata più o meno fantasiosamente da Hayao Miyazaki presuppone con una convinzione che sfiora il dogmatismo. Le logiche dietro alla stesura di una sceneggiatura, per così dire, “convenzionale”, giustamente si pongono su un livello più consono, si potrebbe dire “terreno”. Il mistero non sempre è amico dello sceneggiatore, il cui ruolo è semmai quello di fornire la giusta dose d’informazioni senza per forza essere troppo esplicito. Guardando film come Nausicaä della Valle del vento ci accorgiamo però che troppi sono i tasselli mancanti, o per lo meno pochi sono i ponti che uniscono le isole non proprio vicine dell’arcipelago.

Senza contare l’aura fiabesca che contiene ognuna di queste storie, per cui la loro assimilazione è tutto fuorché immediata. A certe opere si reagisce né d’impulso né razionalizzando troppo, bensì lasciandosi trasportare pur restando presenti a sé stessi, come la corrente di un fiume che però ci vuole vigili, attenti a ciò che accade. Il pericolo allora sembra essere che né per le vecchie né per le successive generazioni i mondi di Miyazaki siano accessibili: ai primi poiché cresciuti col mito del razionalismo e della scienza che spiega tutto e che sola può farlo; ai secondi poiché costantemente incalzati ed incoraggiati a seguire le proprie «emozioni», abbandonandosi arrendevolmente ad essere. Cuore e mente. Di questo parlano i film di Miyazaki, che però riconoscono e contemplano un elemento aggiuntivo, non meno determinante: lo spirito, che li presuppone entrambi, non uno o l’altro.

Hayao Miyazaki