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Io sono leggenda – dal romanzo al film

“Io sono leggenda“, il recente film di successo, diretto da Francis Lawrence, rappresenta un’ottima occasione per riflettere il rapporto fecondo, ma al tempo spesso controverso, fra cinema e letteratura. Il romanzo omonimo da cui il film è tratto (uscito in una prima edizione italiana con il titolo molto meno seducente de “I Vampiri”), è stato

30 Gennaio 2008 22:19

Io sono leggenda“, il recente film di successo, diretto da Francis Lawrence, rappresenta un’ottima occasione per riflettere il rapporto fecondo, ma al tempo spesso controverso, fra cinema e letteratura. Il romanzo omonimo da cui il film è tratto (uscito in una prima edizione italiana con il titolo molto meno seducente de “I Vampiri”), è stato scritto nel 1954 da quello che Ray Bradbury, l’autore di “Cronache Marziane” ha definito, a ragione, uno dei migliori scrittori del nostro secolo: Richard Matheson.

Matheson non è certo nuovo a frequentazioni cinematografiche. Oltre ad aver scritto episodi per serie come “Star Trek” e “Alfred Hitchcock Presenta”, è stato uno dei maggiori autori della serie “Ai confini della realtà”, che rivoluzionò l’immaginario di più di una generazione. Per il cinema scrisse due sceneggiature tratte da suoi romanzi (“Radiazioni BX distruzione uomo” da “Tre millimetri al giorno” e da “Io sono leggenda”, per “L’ultimo uomo della terra”), oltre a vari lavori per Roger Corman. Fra le sue innumerevoli produzioni i più lo ricorderanno soprattutto per aver fornito a Spielberg il soggetto per il film televisivo “Duel”.

Io sono leggenda si basa su uno dei meccanismi classici della letteratura di genere: quello del ribaltamento. Se il vampiro è una figura terribile e romantica, predatore solitario in un mondo di uomini, e da questi perseguitato, perché non invertire i termini di questa formula e trasformare la terra in un mondo luogo ormai ostile dove la quasi totalità della popolazione è stata trasformata in mostri dediti al cannibalismo e dove, solitario, sopravvive un ultimo uomo (Robert Neville), dedito alla ricerca di un vaccino che possa sconfiggere questo terribile virus? In realtà, questo semplice ragionamento, che avrebbe potuto dar frutto a niente più che a un innocuo divertissmant, viene ulteriormente approfondito da Matheson nella seconda parte del romanzo dove i vampiri, superata l’iniziale fase di abbrutimento, si riorganizzano in una società la quale, inevitabilmente, Neville è visto come il nuovo orrore: la leggenda del titolo appunto.

I film tratti dal romanzo hanno eliminato o minimizzato questo originale sviluppo dell’autore, preferendo sviluppare le parti forse meno originali e sensazionalistiche. Questo porta a chiedersi quale debba essere il rapporto di fedeltà rispetto all’opera che si decide di adattare, in questo caso, per il grande schermo. Il tradimento, nei confronti dell’amato, è un peccato grave e difficilmente perdonabile, ma se si decide di compierlo, è meglio farlo senza remore e pentimenti. Allo stesso modo se si decide di compiere un’operazione di riscrittura sul lavoro di un altro autore, è lecito supporre che non solo è consigliabile, in termini di linguaggio, prendersi non poche libertà, ma addirittura tradire il testo, destrutturandolo, cannibalizzandolo, fino a renderlo quasi irriconoscibile.

Il primo film tratto dal romanzo di Matheson, “L’ultimo uomo della terra“, diretto nel 1964 da Ubaldo Ragona, e scritto per il grande schermo dallo stesso romanziere, è un’originale horror del periodo, prodotto in evidente ristrettezze economiche dalla Hammer (casa di produzione che, in quegli anni, invase le sale con piccoli gioielli prodotti a basso costo) e che, come abbiamo anticipato, incentra il proprio racconto esclusivamente sulla contrapposizione dell’eroe solitario (il Dott. Robert Morgan) e i vampiri. Il coinvolgimento di Matheson nel progetto suggerisce che la scelta fosse supportata dall’autore, ed in effetti, anche se privato di una parte possibilmente interessante, il film funziona molto bene, soprattutto grazie ad un ottimo Vincent Price e a delle scelte di regia originali, non infrequenti in film del genere prodotti nel periodo, specie se low budget. Per il pubblico italiano il film è particolarmente curioso, perché ambientato nello spettrale scenario del quartiere EUR di Roma.

L’adattamento successivo, “Occhi bianchi sul pianeta terra” tenta, senza molto successo, di restare più aderente alla trama originale, mostrando però una ridicola e poco credibile società di “vampiri” resa con un make up sinceramente ridicolo. Al solido, paladino cool del cinema di fantascienza del periodo (nel 1968 aveva girato “Il pianeta delle scimmie”), Charlton Heston offre un’ottima e sofferta prova.

Arriviamo dunque al film di Lawrence. Come molti hanno già sottolineato, da molti punti di vista tutta la prima parte della pellicola rappresenta una coraggiosa lezione di cinema, specie se si pensa che il film è stato progettato per essere un blockbuster di sicuro successo. Il solito Robert Neville (qui un Will Smith in ottima forma), vaga per una New York resa deserta e spettrale dal solito virus. Sorta di novello paradiso terrestre di giorno, di notte la città si trasforma in un incubo metropolitano. La storia procede come già sappiamo. Le splendide scenografie, la recitazione controllata di Smith e una regia discreta tengono alta curiosità e tensione. Peccato che poi il tutto scivoli verso una goffa e frettolosa conclusione che non manca di lasciare delusi, complici anche vari ed evidenti errori di sceneggiatura. Innanzitutto un inizio di organizzazione sociale dei vampiri, che però non viene approfondita, resa soprattutto attraverso l’abbozzo caratteriale di una delle creatura. Il tutto, però, si ferma improvvisamente, in un crescendo di scene d’azione poco coinvolgenti. Altro grande problema del film sono i flashback che, per la logica perversa della chiarezza (ma non bastava il video iniziale?) spezzano e rovinano l’atmosfera. Ultimo, ma non ultimo, il sacrificio di Neville, davvero maldestramente giustificato, e che sembra servire esclusivamente l’abbozzata morale della pellicola. Per chi ha già visto il film: cosa avrebbe impedito al protagonista di lanciare la bomba e poi richiudersi alle spalle lo scivolo della carbonaia?

Al di là di queste considerazioni, però, il film, travisa completamente il senso del romanzo, recuperando un’idea di eroe tragico che il libro di Matheson a malapena sfiorava. Gli eventi del film portano, infatti, il dialogo fra il dottore e Alice Braga, sul rapporto fra Scienza e Fede, tutto a favore del secondo termine di questa equazione, in una sorta di impennata mistica che il racconto precedentemente narrato davvero non faceva supporre. Se prima si è parlato di tradimento, non è certo a questo che ci si riferiva. Questa è un’operazione a cui manca sostanzialmente coraggio. Si può decidere, infatti, di stravolgere la struttura narrativa di un’opera altra per trasporla al cinema, allo scopo di conservarne lo spirito, si può, come fece l’anarchico Paul Verhoeven con “Starship Trooper”, di sovvertirne completamente il senso per uno scopo parodistico, si può, come nel già citato caso del film di Aragona, decidere di semplificare per ottenere un risultato onestamente spettacolare. Lawrence non fa niente di tutto ciò, dando vita ad un’opera che promette molto, ma mantiene quasi nulla e che, rendendosi conto che un film di queste pretese deve pur avere una morale, la mette dentro a forza: brevemente però, il resto serve allo spettacolo e, si sa, la morale annoia.

Il tradimento, però, non viene spesso confessato. Per fortuna il seme di Matheson è riuscuto a dare frutti fecondi, nonostante i padri non fossero sempre fertili. Lo ha fatto però di nascosto, lentamente. A ben riflettere, infatti, la tetralogia degli zombie di George Romero, è il risultato più compiuto della poetica dell’autore (e conseguentemente lo stesso discorso vale per quegli autori che a Romero si sono a loro volta ispirati, come il Danny Boyle di “28 giorni dopo”). Non parliamo più di vampiri, ma di zombie, e anche i meno attenti potrebbero far notare che le storie si assomigliano poco: chi potrebbe però negare che lo spirito sia lo stesso? Analizzando i singoli film di Romero le analogie potrebber saltare difficilmente all’occhio, ma considerando la saga nel suo complesso si comporrà un compiuto omaggio all’opera del romanziere americano. Nel poco visto, poco citato e, spesso, poco amato, “La terra degli zombie”, la parabola mathesoniana finalmente si compie, e Romero riesce al contempo a dare un’ulteriore feroce graffiata al sistema capitalistico odierno. Cosa si potrebbe volere di più dall’incontro di due arti e di due artisti?