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Zona d’ombra: recensione in anteprima

Tratto dal romanzo ispirato a un articolo apparso su GQ, Zona d’ombra risente sin troppo del malcelato intento agiografico, che ha la meglio sulla vicenda. Scelta precisa, quella di Peter Landesman, qui regista e sceneggiatore

pubblicato 15 Aprile 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 12:30

Bennet Omalu (Will Smith) è un patologo forense di origini nigeriane. Uno di quelli che nell’America c’ha sempre visto l’America, per l’appunto: terra di sogni, speranze, benessere e via discorrendo. Si è fatto il mazzo il dottor Omalu, e Peter Landesman ci tiene a sottolinearlo da subito, attraverso una scena programmatica per l’intero film, che non a caso è la scena che apre Zona d’ombra.

Chiamato a testimoniare presso un tribunale, Omalu quasi si disinteressa della domanda che uno degli avvocati gli pone, cominciando ad elencare tutti gli attestati, i diplomi e i master che ha collezionato nel corso della sua carriera. Non importa che ciò sia avvenuto davvero o meno; se si decide che valga la pena introdurre così lo spettatore dentro a un film del genere, non stupisca se poi ci si faccia un’idea sbagliata.

La vicenda è quella, a dire il vero triste, che all’inizio degli anni 2000 ha coinvolto sino ai vertici la National Football League (NFL), costringendo i suoi esponenti ad ammettere che sì, erano a conoscenza dei danni che questo sport provocava al cervello degli atleti. In sintesi, in quel periodo si verificano dei decessi e suicidi sospetti, commessi da parte di stelle ed ex-stelle del football americano: uomini di sana e robusta costituzione, che però lamentano delle patologie apparentemente inspiegabili.

Uno di questi è Mike Webster, campione dei Pittsburgh Steelers, primo di una serie, il cui cadavere viene sottoposto ad autopsia proprio da Omalu, i cui metodi non saranno il massimo dell’ortodossia ma la cui abilità d’osservazione ha pochi eguali. Il dottore scopre che il problema si trova nel cervello e che l’infarto patito da Webster non è che «il modo in cui è morto, non il motivo». Fatti esaminare dei campioni del cervello, vengono dedotte delle relazioni tra le violente testate subite e inflitte nel corso della carriera dell’atleta e la condizione in cui lo stesso versava poco prima di morire, un misto di follia e depressione, giusto per darne una descrizione sommaria, successivamente definita CTE (Encefalopatia traumatica cronica).

Qui comincia la trafila medica e legale del protagonista, chiamato a combattere una battaglia persa in partenza, lui novello Davide contro il Golia dell’industria dell’intrattenimento: nessuno è infatti interessato a mettere a repentaglio l’immagine dello sport più seguito negli Stati Uniti, possibilità estremamente concreta qualora le indagini di Omalu venissero prese sul serio e diventassero perciò di dominio pubblico. Il resto è cronaca, oltre che trama, su cui perciò non scriviamo oltre.

Di Peter Landesman, che qui è sceneggiatore e regista, citiamo due lavori. Il primo è Parkland, ovvero il peggior film in Concorso a Venezia nel 2013; il secondo è La regola del gioco, più recente, di cui però il nostro ha scritto solo la sceneggiatura. Non vorremmo elevarlo ad assioma indiscutibile, ma il fatto che due film analoghi nel genere e nelle intenzioni risultino così diversi nel risultato ad avviso di chi scrive è dovuto essenzialmente ad un elemento, che è il Landesman regista.

Torniamo a Zona d’Ombra. Più su abbiamo evocato la primissima scena, lamentandocene a ragion veduta; tutto il film è costellato di scelte di regia discutibili, che sia un brano musicale, uno stacco di montaggio o certi passaggi quantomeno affrettati. È vero, nemmeno sulla carta il film sembra brillante, ma lo era di per sé La regola del gioco per esempio? Lì lo stile asciutto e compatto di Cuesta apporta il contributo fondamentale affinché la vicenda del giornalista Gary Webb appaia credibile e coinvolgente, senza troppi fronzoli. Zona d’Ombra invece cos’è, se non il ritratto di un santo laico di cui si è interessati a celebrare le virtù ben più che raccontare la storia grazie alla quale è assurto a tale santità?

Succede spesso quando Hollywood si mostra così desiderosa di mostrarci la parabola di certi eroi americani per dimostrare che in fondo la “persecuzione” non è altro che l’amaro pedaggio da pagare per raggiungere l’Olimpo. Dimentichi di una lezione che eppure proprio Hollywood ha impartito come e meglio di altri, ovvero che l’azione viene prima di tutto, e che mostrare è un percorso che va sviluppato a prescindere dal messaggio; ché quando questo prende il sopravvento si finisce sempre col tradire le premesse del racconto, per quanto nobili e condivisibili.

Landesman cade in tale errore, per questo Zona d’Ombra è così inespressivo, grigio, in relazione non al suo contenuto bensì a come questo viene filtrato. Un filtro che lavora male, troppo male, che lascia spazio per lo più a frasi ad effetto e passaggi forzati proprio nel modo in cui vengono costruiti. E non rileva, qualora qualcuno legittimamente se lo domandasse, il fatto che dalle nostre parti l’NFL non goda della medesima percezione che vi è negli USA; una storia del genere tratta temi universali, che toccano chiunque a prescindere dal contesto d’appartenenza. A maggior ragione sacrificare certe interessanti premesse sull’altare dell’agiografia, peraltro claudicante, è operazione dalla quale prendere le distanze senza se e senza ma.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”3″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”4″ layout=”left”]

Zona d’ombra (Concussion, USA, 2015) di Peter Landesman. Con Will Smith, Alec Baldwin, Gugu Mbatha Raw, Arliss Howard, Paul Reiser, Luke Wilson, Adewale Akinnuoye-Agbaje, David Morse, Albert Brooks, Bitsie Tulloch, Eddie Marsan, Stephen Moyer, Matthew Willig, Richard T. Jones, Mike O’Malley, Hill Harper, Gary Grubbs, Britanni Johnson, Sara Lindsey, Jason Davis e Dan Ziskie. Nelle nostre sale da giovedì 21 aprile.