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Hunger: Recensione in Anteprima

Cineblog recensisce per voi Hunger, primo, acclamato film di Steve McQueen, con uno straordinario Michael Fassbender

pubblicato 26 Aprile 2012 aggiornato 1 Agosto 2020 02:03

Fa un po’ sorridere, bisogna ammetterlo, parlare di anteprima recensendo un film come Hunger. Ma d’altronde non è nostro interesse intentare alcun processo nei riguardi di chicchessia, solo rendervi partecipi di un’ovvia ancorché evidente sensazione. Come molti sapranno, la pellicola in questione risale al 2008, ed il “povero” Steve McQueen ha messo meno tempo a girare un secondo film (Shame) e presentarlo a Venezia prima di vedere noi la sua opera prima nelle nostre sale. C’est la vie.

Se quindi alcuni (molti) avranno già provveduto, a tutti gli altri non resta che parlargliene di questo Hunger, perché, al di là di tutto, è proprio il caso che se ne parli. Frutto del lavoro di un regista a cui non dispiace ammettere che all’epoca delle riprese fosse pressoché avulso da tante, troppe dinamiche inerenti a questo mondo. “Non avevo mai diretto degli attori fino a quel momento“, ebbe modo McQueen di esternare candidamente alla troupe prima di cominciare le riprese.

D’altro canto, come a breve avremo modo di evidenziare, l’intera pellicola poggia su lunghi silenzi, delegando alle pure immagini il compito di portare avanti la narrazione. Aspetto peculiare della prosa del regista britannico, i cui precedenti lavori sono quasi tutti muti e in bianco e nero – il suo è un passato da video-artista. Il soggetto, poi, è di quelli da trattare con i guanti di seta. L’indipendenza nordirlandese al tempo in cui i diritti dei cattolici ivi residenti dovevano far fronte a restrizioni di un certo tipo, in un regime di palese discriminazione.


Ma non è sulla storia che vogliamo soffermarci, o almeno, non dove non sia indispensabile ai fini della nostra trattazione. Per comprendere la portata degli eventi narrati in Hunger, basta dare la parola allo stesso Steve McQueen:

“Nel 1981 ero un ragazzino e all’eta di undici/dodici anni tre cose hanno lasciato il segno su di me: la Rivolta di Brixton, il Tottenham che vince la FA Cup, un evento fantastico, e Bobby Sands. La sua immagine appariva sullo schermo della televisione praticamente ogni sera, con un sottotitolo che indicava un numero, e mi è rimasta impressa quella determinazione appassionata e il livello di quello scontro alzato fino alla morte a seguito di uno sciopero della fame. Quel ricordo e quella opportunità mi hanno spinto a voler scoprire di più su di lui e ho pensato che la sua figura avrebbe dato vita a un film molto forte”.

Tale e tanta è stata l’entità del gesto estremo di Bobby Sands e di altri nove repubblicani, che la produzione ha voluto fortemente, sotto indicazione del regista, una troupe nordirlandese. Al di là delle specifiche competenze, ognuno di loro era in qualche misura legato a quel triste evento. Sands e gli altri suoi compagni decisero di lasciarsi morire piuttosto che vivere in stato di libertà ristretta – che se non è schiavitù, molto le assomiglia.

Non a caso Hunger tocca l’apice, sotto ogni aspetto, proprio in quell’interminabile pianosequenza di 22 minuti, in cui film muta completamente registro. Pochi, pressoché centellinati i dialoghi, sia prima che dopo questa parte. Ma lì, in quel lungo ed appassionato dialogo tra due straordinari Michael Fassbender e Liam Cunningham, lo schermo illumina la sala di una luce strana e noi, rapiti da quell’alto scambio di botta e risposta al vetriolo, veniamo catturati quasi fossimo altrove. Le fenomenali doti interpretative di Fassbender, impeccabile da qualunque punto di vista lo si osservi, raggiungono qui vette che poche volte nella sua già brillante carriera ha anche solo sfiorato. Quel dialogo sincero, incalzante e sopra le righe con un prete (Cunningham) che, parola di Sands (Fassbender), è davvero un dottore di anime.

In fondo la potenza ed il significato di Hunger sta tutto lì, in quel dibattito teologico che spaventa entrambi i contendenti, tanto si sentono scavalcati da questioni così capitali. Nella presa di coscienza che mai, come in quel momento, due uomini così fermamente lontani siano così profondamente vicini. Ciascuno dei due, mosso dalla propria Fede, dalla quale non intendono recedere nemmeno di mezzo passo. Istanti che trasudano una virilità senza tempo; quella che unisce il peccatore senza assoluzione ed il ministro-uomo esperto di vita. Le chiavi di tutto, in mano all’abilità di due soli attori, seduti, uno davanti all’altro, mentre danno vita a qualcosa che trascende la recitazione stessa. Ed è davvero tanto per una sequenza che si gioca tutto solo ed esclusivamente sulle capacità recitative dei due protagonisti.


Basta tenere presente quanto ci siamo soffermati su questa parte della pellicola, riguardo cui le nostre considerazioni non rappresentano che una sintesi, peraltro goffa, di quanto ci sarebbe da scrivere. Ma che, come detto, questo sia l’apice, non vuol assolutamente dire che il resto sia contorno. L’abilità di McQueen nel giocare con le immagini non fa altro che impreziosire quella lunga scena parlata. Prima di essere travolti da quel violento ma pacato “scambio di parole”, il regista inglese costruisce sapientemente un contesto. Non permette che la descrizione di ciò che accade passi attraverso il racconto, diretto o indiretto, di chi ne è coinvolto. Nossignore. Ci mostra realmente, quasi ci trovassimo dinanzi ad un documentario, cosa significava trovarsi all’interno dell’H-block in quell’oramai lontano 1981.

Ed è magistrale l’abilità di McQueen nel lasciar intendere cosa esattamente passi per la testa tanto dei secondini, quanto dei prigionieri. Prigionieri che, proprio per non essere relegati a tale status, hanno combattuto la loro battaglia negli unici modi che avevano a disposizione. Via via sempre più silenziati, hanno preferito vivere circondati da putridi escrementi piuttosto che mollare quell’unica cosa che ancora li teneva in vita. Vita che, arrivati ad un certo punto, diventava tranquillamente spendibile per amore della vita stessa. Un tempo si diceva fosse questa la differenza tra martire e suicida, il cui gesto differiva solo nella prospettiva: il primo a vantaggio della vita, il secondo per rifiuto della vita stessa.

Temi alti, forse anche troppo rispetto a quanto ci compete. Tuttavia il fatto che la visione di una pellicola di questo tipo susciti certi sentimenti, evochi certe questioni, è ampiamente indicativo circa la sua validità. Solo ora ci accorgiamo di non aver fatto menzione della violenza, quella fisica, che in Hunger trova comunque terreno decisamente fertile. Una violenza brutale, che va oltre le manganellate o i pestaggi a sangue. Truci sono ancor più le immagini di un uomo che, per ferma ed inappellabile volontà, opera un’inaudita violenza al proprio stesso corpo, agonizzante per 66 giorni prima di riuscire a scrivere per intero quella parola composta da quattro semplici lettere: FINE.

Voto di Antonio: 9,5
Voto di Gabriele: 9

Voto di Federico: 8,5

Hunger (Gran Bretagna, 2008, Drammatico) di Steve McQueen. Con Michael Fassbender, Liam Cunningham, Stuart Graham, Brian Milligan, Liam McMahon, Helena Bereen, Larry Cowan, Linden Ashby, Lori Heuring, Bjorn Johnson, Joe Egender, Laura Albyn, Julian Rojas, Lea Kohl, Kathy Shea, David Nicholson e Britton Partain. Nelle nostre sale da domani, venerdì 27 Aprile.