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Soul, recensione, Pixar corrisponde di nuovo alla propria ambizione

Il film di Natale della Pixar è anch’esso impastato di quella stessa ambizione che ha fatto grande Inside Out, sulla cui scia si pone dignitosamente

pubblicato 24 Dicembre 2020 aggiornato 26 Dicembre 2020 09:08

Joe ha l’occasione della vita: un suo ex-allievo lo contatta perché alla grande sassofonista Dorothea Williams manca un pianista e, di lì a poche ore, si tiene un concerto presso uno di quei bar in cui il jazz regna. Soul fin lì ci delinea in modo schematico l’esistenza di Joe, professore alle medie che ama il suo lavoro ma che al tempo stesso lo vede castrante. La madre lo vorrebbe sistemato; basta inseguire quel sogno inutile di campare di musica, da musicista ovviamente.

Il provino va a buon fine, la ruota sembra finalmente girare… finché, scorrazzando per la città, euforico e distratto come non mai, Joe non cade in un tombino e muore. Già qui emergono le prerogative di Pixar, che un incipit del genere riesce ad allegerirlo quanto basta per far sì che il tutto risulti finanche spassoso. L’animella di Joe si trova su questa scala mobile che, verosimilmente, porta in Paradiso (dicitura di cui non si fa menzione): eppure lui non è pronto, la sua grande occasione lì ad attenderlo, in quell’altra dimensione che è la vita. Si fa largo tra la folla, aggrappato all’esistenza come forse mai finché poteva, ma non c’è verso… quel che è successo è successo.

Rocambolescamente il nostro finisce per essere catapultato in un’area in cui alle anime che attendono di prendere possesso dei rispettivi corpi viene assegnato un mentore che le aiuti a trovare quel quid che dia loro modo di scendere sulla Terra. Ciascuna è indicata con un numero, e ce n’è una in particolare, la numero 22, che sta fin troppo bene dove si trova, e che di nascere non ci pensa nemmeno: ha sentito parlare della vita laggiù e le sembra non ne valga la pena. Eppure insieme a Joe una sortita finisce col farla, innescando un processo destinato a ribaltare non solo la sua di storia, ma anche quella di Joe.

Quando la Pixar indovina il tiro lo fa per davvero. La sua opera di semplificazione anche a ‘sto giro non è svilente; semplifica ma non mortifica, rende un argomento così complesso alla portata ma si guarda bene dalla pretesa di esaurirlo. Non intende necessariamente far riflettere, bensì lavorare su questioni con le quali a tutti tocca confrontarsi, magari distrattamente, proprio perché a tal punto è elevata l’impresa che si è portati a desistere anzitempo. Fabbricando mondi che esistono solo nell’immaginazione di chi li ha concepiti, prima ci è stato detto che una cosa così bistratta come la tristezza in realtà non va isolata, o peggio ancora negata; ora invece ci spiega che l’anima, in fin dei conti, è ciò che ciascuno è chiamato a costruirsi.

Quel che autori immensi come Ortega y Gasset e Miguel de Unamuno, non a caso spagnoli entrambi, ci hanno messo anni, forse una vita intera a tentare di spiegare, sebbene in maniera più modesta ma non per questo esponenzialmente meno efficace prova a dircelo ora un film d’animazione. Procedendo per via negativa, ossia partendo sempre da ciò che l’anima non è; l’unica è andare per esclusione, così da evitare di trovarsi nella scomoda situazione di dover essere troppo chiari se non addirittura tranchant.

Lo fa di nuovo servendosi di quello stile minimale, meno sgargiante di Inside Out, più sobrio soprattutto nella paletta dei colori, che ancora una volta oppone al realismo della quotidianità la stilizzazione di un contesto in cui l’esistenza prende forma, che sia la mente o lo spirito. Ecco allora coloro che reggono tutto, delle figure picassiane, i Terry, esseri che smistano le anime così da preparlarle allo sbarco nel mondo. Anche Soul gioca con le nostre aspettative, non cedendo pressoché in nessun caso alla tentazione più immediata.

Quando crediamo di averne afferrato non tanto il senso, quanto il messaggio, cit troviamo a dover prendere atto di aver capito poco. Solo sul finire emergono gli intenti, senza che però non vi sia alcuna forzatura, arrivandoci un po’ alla volta e di cuore. Alla base il discorso verte sul senso dello stare qui, sul perché insomma si vive; per Joe, ne è sicuro, si tratta della musica, di quella volta che ascoltò il jazz controvoglia e capì subito che non ci sarebbe stato altro. Ma, come accennato, quest’opera di semplificazione non significa sgonfiare la portata dei temi messi in campo: nessuna ode dunque ad una sorta di ordinarietà quale via preferibile, l’esaltazione di una mediocrità che fintamente si nasconde dietro le piccole gioie della vita.

Semmai si lavora su scala, ossia sul restituire la giusta dimensione, chiarendo alcuni punti che si può tendere a dare per scontati. Come Pete Docter e soci riescano a tradurre tale dinamica in immagini è sempre corroborante assistervi. Quando Joe si vede da fuori non capisce cosa sta accadendo, per dire; ma quando quegli stessi episodi ha modo di rievocarli vivendoli come ricordi acquisiti, sebbene da qualcun altro, allora tutto gli è più chiaro. Uno schiaffo ad ogni accademismo di sorta, così come a quella sua branca, l’empirismo, messo sotto scacco da un trattamento intelligente di tematiche oltremodo complesse.

I continui cambi di registro, sempre opportuni e mai sovrapposti, collocano Soul nel pieno di una tradizione a cui anche stavolta viene data continuità. Pixar è una dei pochi a sfornare testi che non si tende a ricordare per una scena specifica, bensì per quello che ci lasciano a fine corsa, per il modo in cui la tesi d’inizio trama viene ribaltata sotto i nostri occhi, in maniera così organica da far sì che ci si creda senza alcun dubbio. Quelle di Pixar sono sempre parentesi, storie tenute volutamente aperte, perché di solito tendono a focalizzarsi su uno step, lasciando poi che sia lo spettatore ad ipotizzare un possibile epilogo, se proprio lo desidera.

Da tutto ciò non può essere estraniata la tecnica, la già menzionata opposizione tra il (foto)realismo delle sequenze, quella verosimiglianza sempre più estrema, al tocco esasperato nel ricostruire questi contesti immaginifici dove si svolge la vera azione, quasi contravvenendo ad una delle prime regole del cinema, ossia mostrare il mostrabile e limitarsi solo a quello. Il massimalismo tecnico, inteso come ricorso di base alla computer grafica più sfrenata, fa il paio col minimalismo stilistico di personaggi e cose che si somigliano tutti, forse anche a conferire quel grado d’universalità che rende certe storie in fin dei conti buone per tutte le stagioni.

Commovente là dove decide di aprirsi, senza manifestarsi al contempo didascalico (non troppo quantomeno). Soul rappresenta un’ulteriore conferma circa la capacità di Pixar nel (ri)creare mondi entro cui non solo raccontare una storia, ma consentirci altresì di attingere a canali per lo più anestetizzati da una congerie d’immagini e idee prive di significato. Il suo non essere in nessun caso banale, pesino in quei momenti in cui il rischio c’è, è un plus ulteriore, eppure indispensabile per la riuscita di un progetto del genere.

Non conviene, dunque, lanciarsi in paragoni. Soul probabilmente non attecchisce tanto quanto Inside Out, non perché meno intelligente l’approccio, quanto perché l’argomento di per sé è qui più sfuggente, forse finanche più tecnico per poter aspirare alla stessa presa. Nondimeno si percepisce in maniera tangibile il voler proporre una visione che non si appiattisce su opinioni scontate, ma che al contempo non intende smontare o anche solo contraddire perché è bello di tanto in tanto fare i bastian contrari. C’è una sincerità di fondo in alcuni film Pixar, che, appunto, come ravvisato in apertura, quando si lascia cogliere fa tutta la differenza di questo mondo; ma anche la passione, qui contestualizzata senza alcun ridimensionamento, ancorché alla fine potrebbe sembrare. Sembra però, proprio perché riconoscerle il posto che le spetta significa di conseguenza tener conto di quale sia il terreno entro cui farla maturare. Esempio di un’ambizione che ha lo sguardo di un musicista ritrovato, come quello della Pixar degli ultimi suoi lavori.