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Veloce come il vento: recensione in anteprima

Altro film di genere fatto in Italia, Veloce come il vento si adegua con competenza a certi stilemi, non risolvendosi però nel mero compitino. Per questo, e non solo, definirlo il «Rush italiano» rappresenta una fuorviante semplificazione

pubblicato 30 Marzo 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 07:28

Veloce come il vento altro non è che una favola, di quelle in cui lo sport è tutt’al più un pretesto, come nel film che di tale filone è espressione più celebre ed emblematica, ovvero Rocky. Si è parlato della risposta italiana a Rush, la qual cosa non è del tutto campata in aria, certo, ma Matteo Rovere non si ferma a Ron Howard. Quello del regista de Gli sfiorati è film derivativo, se vogliamo, termine che significa tutto e niente, ma che soprattutto rappresenta l’ennesimo afflato di una parte di cinema nostrano che vuole a tutti i costi emanciparsi.

Protagonisti la bellissima Matilde De Angelis ed un redivivo Stefano Accorsi, fratello e sorella che si incontrano di nuovo in occasione della dipartita del padre. Lei, giovane promessa dell’automobilismo; lui vecchia gloria nel medesimo ambito, divenuto un tossico. Già qui il primo schema, quella forza invisibile che avvicina i due costringendoli a conoscersi, frequentarsi, malgrado la loro stessa reticenza. Nel loro assecondare talune misure Rovere e soci si dimostrano quantomeno capaci, forse anche troppo rispettosi di certe strutture, ma oh… non è anche questo il genere?

Tuttavia Veloce come il vento non è il frutto di un mero stampino, bensì un’opera fortemente ancorata a certi canoni che, nel bene o nel male, rispetta con scrupolo. Giulia (De Angelis) deve a tutti i costi vincere il campionato GT se non vuole perdere la casa lasciatale in eredità dal padre, che era al tempo stesso il suo mentore e preparatore. Sprovvista di entrambe le cose, la ragazzina ha tutto in salita, finché non scopre che il fratello Loris (Accorsi) sarà sì un drogato, ma con una cultura imponente ed una comprensione approfondita di quel mondo lì, ossia le corse automobilistiche.

Trenta euro al giorno bastano e avanzano per stabilire una sintonia vuoi o non vuoi precaria, ma che consente a entrambi di avvicinarsi all’altro e capirsi un po’ meglio, al punto da tenerci sul serio. E se il film si adegua ad una scrittura piuttosto codificata, non da meno è la regia di Rovere, che con discrezione gira le scene di corsa scimmiottando produzioni ben più blasonate e caciarone come un Fast & Furious a caso, sebbene su pista (ma non solo). Tuttavia trattasi di riprese comprensibili, in cui non si strafà, ed è questo il vero valore aggiunto, ossia la misura. Presi dall’euforia si sarebbe potuti infatti partire per la tangente, invece no: Veloce come il vento ha rispetto per lo spettatore, che non viene sottoposto ad inutili e maldestri tour de force visivi.

Non solo perché, come già evidenziato, le corse sono tutt’al più un pretesto che fa sfondo ad un dramma familiare, bensì perché evidentemente non siamo ancora abbastanza maturi da poter osare di più. Ed è un bene che se ne abbia consapevolezza; non a caso al film di Rovere si guarda anche in prospettiva, nella speranza che a forza di “imitare” venga fuori una classe di produttori, registi e cineasti in genere che acquisiscano col tempo quella padronanza tale da “rivedere” il genere e crearcelo su misura nostra. E qui ci concediamo una breve licenza.

Laddove infatti il film si uniforma a certi modelli, ispirandosi al canovaccio di parabole edificanti di fattura tipicamente americana, per lo più mainstream peraltro, il tentativo, seppur non del tutto impeccabile, di localizzare questa vicenda rappresenta uno degli elementi che chi scrive ha più apprezzato. Sempre più emerge che per costruire un cinema che sia nostro ci sia bisogno di una lingua che sia nostra, o per lo meno di una sua sana percezione. Rovere perciò non disdegna affatto un forte accento romagnolo, integrando addirittura battute in dialetto. Dialetto da cui la giovane Giulia pare essere avulsa (tanto che ci ha sorpreso apprendere che Matilde De Angelis fosse bolognese), ma che invece il personaggio di Accorsi ed il ben più anziano meccanico parlano fluentemente.

Di solito si tende a tacciare certe cose di provincialismo, e ci si dichiara stufi ora del troppo romano ora del troppo napoletano. E non che non vi siano esempi di film in cui il territorio è componente pregnante che passa anche e soprattutto dalla lingua, ma parliamo di esempi che per lo più riguardano film d’autore, come nei film di Mazzacurati, giusto per spostarci a nord. Prendere coscienza dell’importanza di un simile retaggio seppur in un contesto che cinematograficamente parla tutt’altro idioma (l’anglosassone ovviamente) è iniziativa da premiare e promuovere.

Dato che il nostro cinema si è mostrato per troppo tempo impermeabile ai generi, declassandoli in maniera sempre più ignominiosa, i registi operanti nel nostro tempo guardano altrove e traggono ispirazione da luoghi, vicende e persone lontane dalla nostra quotidianità ma che a certe condizioni funzionano (va altresì detto che Veloce come il vento è tratto da una storia vera). Ed allora ci troviamo un Accorsi che magari calca pure un po’ la mano ma il cui Loris ci arriva, ed in generale una storia che si segue, valorizzata anziché svilita da un certo schematismo che è più asciuttezza.

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Sembra infatti che, poco alla volta, ci si stia riappropriando di un certo gusto per l’intrattenimento, ma ancora di più per il saper fare intrattenimento. Prima Sydney Sibilia con Smetto quando voglio, poi Gabriele Mainetti con l’ancor più significativo Lo chiamavano Jeeg Robot, ora Matteo Rovere con Veloce come il vento. Film imperfetti, non solo, pure derivativi in ciò che di buono portano in dote. Concesso. Ma in nessun caso sgangherati, anzi. Opere portavoce di un desiderio di cambiamento che a questo punto non è più possibile rinviare, secondo un paradosso tutto italiano per cui abbandonando il “realismo” si diventa realisti, o viceversa.

Non per niente in tutti e tre i casi si tratta di storie non comuni, alcune credibili, altre meno, una addirittura di fantasia. Niente a che vedere con la greve quotidianità che, diciamocelo, non siamo in grado di decifrare attraverso uno schermo cinematografico – salvo poche, notevoli eccezioni. Ed allora bisogna passare anche da questo, dall’imitazione, dall’imparare da chi, mentre noi ci guardavamo allo specchio contemplando le nostre miserie, sfiduciati in un mezzo che non credevamo più capace di meravigliarci, stupirci, hanno contribuito a creare nuove forme d’intrattenimento, all’interno o al di fuori dei generi.

Mancheranno i soldi che ha Hollywood, e non è poco, certo. Ma le idee ed il coraggio, anche di sbagliare e tirar fuori prodotti modesti, quello no… si paga con un’altra moneta, che non è il denaro. Ché tanto, se non sono all’altezza subito, insistendo lo diventeranno. E se trovate che questo pezzo sia più entusiastico del dovuto, è solo perché, come diceva Agatha Christie, tre indizi fanno una prova; siccome chi scrive crede di averli trovati, perciò ritiene sensato essere positivi (non ottimisti, certe cose le lasciamo volentieri ad altri).

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[rating title=”Voto di Federico” value=”7″ layout=”left”]

Veloce come il vento (Italia, 2016) di Matteo Rovere. Con Stefano Accorsi, Matilda De Angelis, Roberta Mattei, Paolo Graziosi, Lorenzo Gioielli e Giulio Pugnaghi. Nelle nostre sale da giovedì 7 aprile.