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Venezia 2013, sabato 7 settembre: oggi i premi, il Toto-Leone di Cineblog

Festival di Venezia 2013: da qualche ora è partito il Toto-Leone. Noi di Cineblog proviamo a fare il punto della situazione sui rumor e sulle possibilità dei film in concorso di vincere il Leone d’oro. In più ci sbilanciamo coi nostri personali palmares.

pubblicato 7 Settembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 10:26

A cura di Gabriele Capolino

E così anche la 70. Mostra del Cinema di Venezia giunge al termine. Per noi che abbiamo vissuto al Lido sin dal primissimo giorno, provando a raccontarvi il festival attraverso le recensioni e con questo diario giornaliero a quattro mani, sembra una vita fa che stavamo guardando Gravity, il film d’apertura.

Sono invece passati solo 11 giorni. 11 giorni intensissimi di “solo cinema”, in un anno in cui il programma di Venezia si è rivelato estremo, per molti troppo faticoso, discontinuo e sperimentale. E poi la forma sopra la sostanza, la mancanza di commedie, pochi titoli forti e sicuri… La stampa estera, leggendo le critiche e la scarsezza delle stelline nel Ciak Daily, ci ride un po’ dietro:

Questo è un tweet del critico David Jenkins, che sostanzialmente capisce questo dalle stelline del daily: che la critica italiana (carta stampata, certo: ma anche quella online…) odia il cinema d’autore. Dalle critiche e da ciò che si sente qui al Lido noi italiani siamo i meno appassionati ed entusiasti, siamo i più annoiati e disinteressati.

Forse dovremmo fare un mea culpa e ripartire dalla curiosità, che è quella che nel coprire questa 70. Mostra francamente ci è mancato un po’. E questo al di là della qualità del programma, che però i critici stranieri hanno apprezzato parecchio anche nelle scelte più controverse.

Scusate la divagazione ed entriamo nel vivo di questo aggiornamento del diario: il Toto-Leone. Si è trattato sicuramente di un concorso estremamente variegato, che ha diviso parecchio le opinioni, quindi è difficile capire chi la spunterà su chi e prevedere i gusti della Giuria. Bertolucci ha detto che vuole titoli che lo sorprendano, e pare che non sia manco troppo disposto a premiare maestri rinomati e affermati.

Ci pare una voce di corridoio un po’ infondata: vorrebbe dire scartare dalla lista Tsai, Miyazaki e Garrel. Noi abbiamo previsto sin da subito il Leone d’oro per Stray Dogs di Tsai Ming-liang, ma a questo punto non ne siamo poi così convinti. Tsai ha annunciato che questo sarà il suo ultimo film, così come ha fatto Miyazaki con The Wind Rises: non basteranno questi due addii a convincere la Giuria ad assegnare dei premi ai due maestri?

Se per noi Tsai e Miyazaki sono ancora in gioco per quel che riguarda un premio importante (oro, argento, i due premi della giuria), crediamo abbiano possibilità anche Miss Violence di Avranas e The Police Officer’s Wife di Gröning. Sul versante italiano il titolo più forte è Sacro GRA di Rosi, mentre si fa strada sempre di più l’ipotesi che il Leone d’oro 2013 potrebbe essere giovanissimo: Xavier Dolan con Tom à la ferme. Un Leone assegnato a un ragazzo di 25 anni da un maestro del cinema mondiale sarebbe un segno bellissimo, oltre che una decisione assai condivisibile (parere di chi scrive, per carità).

La Coppa Volpi femminile sembra già indirizzata verso la Judi Dench di Philomena, e non vediamo altre possibilità. Forse la Elena Cotta di Via Castellana Bandiera? Mah. Più complesso il discorso sulla Coppa Volpi maschile. In corsa ci sembra ci siano Scott Haze, animalesco in Child of God, e Themis Panou, padre terribile in Miss Violence. Ma non escludiamo a priori Nicolas Cage per Joe, Louis Garrel per La Jalousie e, giusto per dare un tocco da “effetto sorpresa” al palmares, anche David Zimmerschied, marito violento dal volto angelico in The Police Officer’s Wife.

Non vediamo perché qualche altro film possa vincere l’Osella per la sceneggiatura al posto di Philomena, film parecchio “di scrittura”, rotondo e perfetto. Ma il premio per la sceneggiatura spesso è una sorpresa. Nel 2011 la vinse a sorpresa Alps: potrebbe essere un bis per la Grecia? Tra le “promesse”, gli esordienti e le nuove leve (leggi Premio Mastroianni) noi puntiamo su Tye Sheridan, formidabile in Joe.

Insomma: una partita ancora tutta aperta, e che a noi non sembra finirà col coronare Philomena come in molti pensano. Nell’attesa di seguire in diretta la premiazione dal Lido, vi lasciamo con i nostri personali palmares. A volte abbiamo fatto fatica a dover scegliere per forza un titolo, a volte un film che ci è piaciuto non sapevamo manco dove infilarlo. Ma per le nostre preferenze definitive aspettiamo la fine della Mostra…

– Il palmares di Gabriele

Leone d’oro: Stray Dogs – Tsai Ming-liang / Tom à la ferme – Xavier Dolan
Leone d’argento: Jonathan Glazer – Under the Skin
Gran Premio della Giuria: Stray Dogs – Tsai Ming-liang / Tom à la ferme – Xavier Dolan
Premio della Giuria: The Wind Rises – Hayao Miyazaki
Coppa Volpi maschile: Scott Haze – Child of God
Coppa Volpi femminile: Judi Dench – Philomena
Premio Osella per la sceneggiatura: Steve Coogan, Jeff Pope – Philomena
Premio Mastroianni: Tye Sheridan – Joe

– Il palmares di Antonio

Leone d’oro: The Wind Rises – Hayao Miyazaki
Leone d’argento: Philip Gröning – The Police Officer’s Wife
Gran Premio della Giuria: Stray Dogs – Tsai Ming-liang
Premio della Giuria: Tom à la ferme – Xavier Dolan
Coppa Volpi maschile: Nicolas Cage – Joe
Coppa Volpi femminile: Judi Dench – Philomena
Premio Osella per la sceneggiatura: Steve Coogan, Jeff Pope – Philomena
Premio Mastroianni: Olga Milshtein – La jalousie

6 settembre: la meglio Italia fa rima con Sacro GRA

A cura di Antonio Maria Abate

Meno uno. Manca l’ultimo film per archiviare definitivamente il Concorso di questa 70. edizione della Mostra del Cinema di Venezia (per la cronaca, Les Terrasses). Oggi in tabellone l’ultimo film italiano tra quelli in corsa per il Leone d’Oro, ossia Sacro GRA di Gianfranco Rosi, secondo dei due documentari presenti quest’anno. Senza mezzi termini, il miglior italiano al Festival.

Siamo sul raccordo anulare, luogo per lo più di passaggio; qui conosciamo dei particolari personaggi, alcuni dei quali più bizzarri di altri. Nell’ambito di un’operazione che quantomeno prosegue il discorso intrapreso da La grande bellezza di Sorrentino, Rosi a parer nostro si avvicina addirittura di più a quella verità di fondo che si vuole in qualche modo imprimere su pellicola. Non solo perché, banalmente, il suo è un documentario, ma soprattutto per il sano distacco da quel contesto non di rado grottesco, che non viene né esaltato né demolito ma semplicemente registrato. Un po’ tenero, un po’ spietato, il ritratto di Sacro GRA è in ogni caso verace, anche se magari non del tutto genuino (ma ci sta). Una piacevole sorpresa, oltre che ennesima scommessa vinta per via di un rischio in linea col coraggio mostrato dai selezionatori quest’anno.

Ma oggi è stato soprattutto il giorno del Fuori Concorso, principalmente con tre opere: Walesa di Andrzej Wajda, At Berkely di Frederick Wiseman e Unforgiven di Lee Sang-il. Il primo si sofferma sulla figura chiave del movimento di Solidarno??, fondato da Lech Walesa, premio Nobel e Presidente della Polonia. La sensibilità è sempre quella dedita all’impegno politico non necessariamente di parte del cineasta polacco, chiamato anche stavolta ad affrontare un’altra importante pagina di storia del proprio Paese.

Il secondo l’abbiamo definito un intrigante open day tra le mura di una delle più importanti università al mondo. Ed in fondo tale considerazione non si discosta del tutto dalla realtà, dato che nel suo At Berkely Wiseman, come suo solito, diventa un tutto con la macchina da presa e si limita ad osservare, applicando un filtro che non permette d’inquadrarlo in alcun modo, se non come mero registratore di eventi e situazioni. Nondimeno lo scenario è impietoso, con un sistema d’istruzione americano che, a dispetto dell’altissima considerazione di cui ancora gode (ed in parte a ragione), non riesce a far fronte a tante delle problematiche più urgenti, tra cui anche ma non solo la crisi economica – che si traduce sostanzialmente in mancanza di fondi da parte dello Stato, quella California che non naviga affatto in buone acque. Quattro ore intensissime, attraverso cui ci si sofferma anzitutto sulla didattica, lasciando sullo sfondo argomenti che non riguardano lo svolgimento delle lezioni o la gestione di una realtà così blasonata.

Per chiudere, è stato finalmente l’ora pure di Unforgiven, ovvero Gli spietati in katana. Inutile girarci attorno: film realizzato con tutti i crismi, resta un’inconsistenza di fondo che lo fa impallidire a confronto con altri film giapponesi visti quest’anno, mentre resta addirittura sepolto se confrontato con l’opera originale alla quale si rifà, ossia il già citato film di Clint Eastwood. Da Gli spietati Unforgiven setaccia a piene mani, riportando addirittura intere sequenze tali e quali. Ma non è questo il problema. L’adattamento al diciannovesimo secolo giapponese, quando i samurai sono oramai scomparsi, lascia indifferenti. Non si riesce infatti ad entrare in sintonia con un contesto che già conosciamo e che ci suona in qualche misura falso, monotono. Peccato perché, come già detto, la realizzazione è notevole, così come la pregevole prova di Ken Watanabe.

Domani ci aspetta l’ultimo film in Concorso, Les Terrasses, che chiuderà ufficialmente i battenti, In attesa delle ultime proiezioni non appartenenti a tale categoria, abbiamo il documentario di Ettore Scola, Che strano chiamarsi Federico. Come sempre, vi terremo aggiornati fino all’ultimo istante.

5 settembre: Stray Dogs di Tsai è da Leone d’oro; fischiato L’Intrepido di Amelio

A cura di Gabriele Capolino

All’ultimo Festival di Cannes, riconoscemmo subito il film che avrebbe vinto la Palma d’oro: il film parla per sé, la reazione dei critici poi conferma. Finita la prima proiezione stampa di La vita di Adele avevamo pochi dubbi: l’unico ostacolo poteva essere il Presidente di Giuria Steven Spielberg. Oggi mi pare di aver trovato il Leone d’oro della Mostra di Venezia 2013: dovessi puntare oggi, punterei su Stray Dogs di Tsai Ming-liang (qui la recensione).

Si tratta di un film costruito soprattutto con lunghe inquadrature fisse in pianosequenza, come sempre nel cinema del regista taiwanese. Un’opera che richiede molto allo spettatore e gli regala altrettanto, sia dal punto di vista estetico che intellettuale. Chissà come si porranno i membri della Giuria e il Presidente Bernardo Bertolucci. E chissà se il fatto che Tsai abbia già un Leone d’oro in tasca (per Vive l’Amour nel 1994) non possa valere di più del fatto che questo sia il suo ultimo film prima del ritiro.

Perché non solo Miyazaki non farà più film dopo The Wind Rises, ma pure Tsai dopo Stray Dogs. Guardando la pellicola lo si vede chiaramente che questa è l’ultima volta del regista, che osa come non mai e, restando coerente col suo cinema, va “oltre”. L’inquadratura-mondo sfida il tempo e la percezione dello spettatore, mentre i personaggi di Tsai continuano ad errare per la città e dentro alla cornice dello schermo. Durante la proiezione ci sono state delle persone che si sono alzate e sono andate via: ma l’applauso finale è stato lunghissimo e di quelli più convinti del concorso.

Se siamo quindi convinti di aver visto una delle punte dell’intera selezione di Venezia, se non il capolavoro della Mostra, siamo anche purtroppo convinti di aver visto ieri uno dei suoi abissi: L’Intrepido di Gianni Amelio (qui la recensione), fischiatissimo alla prima proiezione stampa. Per dovere di cronaca ci sono stati anche applausi, in una sfida tra chi ululava di più e chi applaudiva spellandosi le mani.

Stimiamo il regista e amiamo molti dei suoi film, ma questo suo ultimo lavoro mi pare francamente indifendibile. C’è chi, pur di difendere il film, tira in mezzo Zavattini. Però insomma, se vogliamo fare addirittura dei paragoni, dobbiamo anche stare attenti a non penalizzare ulteriormente la pellicola.

L’Intrepido ha per protagonista Antonio Pane, che ha un cognome del genere perché evidentemente è proprio una buona persona. Fa il “rimpiazzo”, ovvero prende il posto al lavoro di chi deve assentarsi per qualche motivo, quindi va anche a vendere le rose nei ristoranti di Milano. Chiede di essere pagato e lo fa sottovoce. Prova una tenerezza infinita per il figlio, artista allo sbaraglio con attacchi di panico. Sì: Antonio Pane è una persona dal cuore d’oro, che vive però in un mondo di squali.

Parte come una commedia, poi L’Intrepido cambia registro e manco te ne sei accorto, talmente sei fuori dal film. Che è buonista e scollato dalla realtà, nonostante metta in scena la crisi economica del nostro paese. Albanese poi recita costantemente con un sorriso fastidioso sulle labbra. Ritmo non perveuto, recitazione di tutti piuttosto canina e dialoghi da turarsi le orecchie (“Per che squadra tifi?”, “Io non tifo per una squadra: tifo per i tifosi”).

Passiamo velocemente oltre a Une Promesse di Patrice Leconte (qui la recensione), fuori concorso, un mèlo in costume con bel cast e prima parte onesta che poi scivola nella noia e sfiora costantemente il ridicolo. Passiamo velocemente oltre anche Rigor Mortis di Juno Mak, omaggio pasticciato all’horror cinese su vampiri e fantasmi anni 70, estetizzante e con uso massiccio di mediocre CGI che piacerà ai completisti.

Mancano ormai pochissimi film in concorso, e dopodomani si sapranno tutti i vincitori della 70. Mostra del Cinema di Venezia. Oltre a Tsai oggi passano in concorso il secondo documentario in corsa per il Leone d’oro, Sacro GRA di Gianfranco Rosi, e La Jalousie di Philippe Garrel (qui la recensione). Andrzej Wajda riceve poi il Premio Persol e presenta fuori concorso il suo Walesa. Man of Hope.

4 settembre: Moebius di Kim Ki-duk scandalizza la Mostra


A cura di Antonio Maria Abate

A ben vedere questo 3 Settembre è stato quello delle grandi bugie. Che sia un atleta od un altrettanto rinomato politico a raccontarle, poco importa. Che entrambi vengano dagli Stati Uniti forse è un dato su cui soffermarsi con più attenzione, al bando antipatie o facili battute. Anche perché gli americani sono i primi ad evidenziare qualcosa laddove sentono la puzza, sia che si tratti di un ciclista che si apre al mondo togliendosi di dosso un gravoso fardello (The Armstrong Lie), sia che si tratti di un consumato politico, ex-segretario della difesa, che ancora oggi non riesce a resistere alla deformazione professionale del sofisma compulsivo (The Unknown Known, qui la recensione).

Entrambi documentari, quindi non mere costruzioni fittizie. Il primo girato dall’attivissimo Alex Gibney, che nel 2009 decide di seguire Lance Armstrong lungo il cammino che lo porta a tornare in sella alla propria bici, salvo poi dover accantonare l’idea e riprenderla quasi quattro anni dopo, quando il ciclista americano decide di gettare la maschera ed ammettere di avere sempre mentito riguardo a quelle che un tempo venivano tacciate di essere semplici illazioni, ossia che lui facesse uso di sostanze dopanti. Nel suo The Armstrong Lie Gibney ci restituisce l’immagine del campione che si sente intoccabile e che quindi si avvicina inesorabilmente al momento in cui sarà costretto a cadere, dopo aver commesso almeno un errore grossolano.

Diverso il caso di The Unknown Known, in cui Errol Morris intervista Donald Rumsfeld, il quale si racconta davanti ad una telecamera con la stessa scaltrezza che ha manifestato nel corso della sua blasonata attività. Non una vera e propria denuncia, bensì un’opportunità per Rumsfeld di narrare la propria versione di tanti, troppi fatti accaduti da quarant’anni a questa parte. Scopriamo per esempio che Rumsfeld è uno a cui piacere “tener traccia” delle cose, da qui il dispendioso archivio con una considerevole mole di materiale raccolto nel corso degli anni. Aneddoti, linee di pensiero, questo troviamo nel film di Morris, che si guarda bene dall’opporre domande davvero ficcanti, nonostante il tono spavaldo con cui si rivolge al veterano della Casa Bianca.

Oggi è stato inoltre il giorno di Under the Skin (qui la recensione), film di Jonathan Glazer che ha diviso, ma che soprattutto ha suscitato i primi sonori fischi quest’anno. D’altronde il suo è un film tutt’altro che conciliante, fortemente ancorato ad una dimensione visiva, nella quale rischia di impantanarsi. Da qui a stroncarlo, come con troppa faciloneria stanno facendo alcuni, a nostro parere ce ne vuole. Trattasi di un’opera che va metabolizzata, processo senz’altro non agevolato da un contesto come quello di un Festival, dove si ha l’impressione di non avere mai abbastanza tempo.

Ma su tutti, oggi è stato il giorno di Kim Ki-duk, vincitore l’anno scorso del Leone d’Oro con Pietà e che col suo nuovo film ha riempito a tappo tutte le proiezioni, lasciando fuori davvero tanta gente. Come qualcuno ha incisivamente rilevato su altri lidi, il suo ultimo Moebius (qui la recensione) fa sembrare il precedente film del regista coreano un film della Pixar.

Considerazione simpaticamente calzante, per via di un film che ha fatto scandalo sin dalla vigilia, contenuto solo dal fatto che qui è presente Fuori Concorso. Ed effetti non si può negare quanto sconcertante sia un film dove la vendetta resta un motore fondamentale, rivisto qui in chiave intelligentemente più ironica – che è poi l’unico modo per presentare un film di questo tipo. Una commedia, insomma, molto ambigua all’inizio, che appena inquadrata assume una significato diverso, fermo restando il fastidio relativamente a certe trovate estreme. Di madri che fagocitano virilità alle proli e non se ne pentono: aggiungiamo solo che stavolta si van ben oltre l’incesto. Alla prima presente proprio lo stesso regista.

E fra poche ore? Noi aspettiamo L’intrepido di Gianni Amelio, Une promesse di Patrice Leconte, La jalaousie di Philippe Garrel e Stray Dogs di Tsai Ming Liang. In attesa delle nostre prossime recensioni, che continueremo a pubblicare a ripetizione qui dal Lido.

Venezia 2013, martedì 3 settembre: Locke è la sorpresa del festival; è il giorno di Capitan Harlock


A cura di Gabriele Capolino

Vero che la crisi sembra essere il filo conduttore di molti film presenti alla Mostra del Cinema di Venezia, ma lo è altrettanto il tema della solitudine. In Gravity l’astronauta Sandra Bullock, “persa” nello spazio, deve sopravvivere da sola e fare i conti con il proprio passato; in Tom à la ferme di Dolan (nota bene: il Leone d’oro di chi scrive) il protagonista deve metabolizzare il lutto del compagno; in Locke il protagonista si trova in macchina a dover gestire diverse situazioni problematiche della sua vita, mentre guida da solo e ogni problema lo allontana sempre di più dagli altri. Locke è la rivelazione della Mostra, ad oggi. Un film potente sulle responsabilità, con un personaggio “morale” che deve confrontarsi con i suoi errori e le sue scelte. Scritto e diretto splendidamente da Steven Knight, Locke è un film che indaga su cosa voglia dire volere essere un uomo “giusto”. Tutto gira che è una meraviglia, e Tom Hardy regala forse la sua migliore interpretazione e una delle prove più belle del 2013. Una vera sorpresa. Meno sorprendente il Terry Gilliam di The Zero Theorem, che torna su zone da lui già ben calpestate (Brazil). Gilliam costruisce ancora un mondo distopico, in cui il “fuori” è tanto opprimente (i divieti! i messaggi pubblicitari!) quanto colorato a mo’ di pastello ed evidenziatori. Christoph Waltz si trova a dover risolvere il più grande enigma di sempre, quello che ha già fatto impazzire decine di geni del computer (e non solo loro)… Poi arriva l’amore, e son ulteriori guai. Gilliam accumula e accumula, parte benissimo e poi si perde, pare ritrovarsi e forse in realtà non lo fa. Sgangherato, auto-citazionista, con trovate impagabili e momenti di stanca: un po’ il filo comune dell’ultima parte della carriera del regista. Però questa volta mi sembra anche che Gilliam sia inaspettatamente toccante e intimamente “disperato”, e azzecca un finale giusto nei confronti della storia e del discorso che manda avanti. Non è forse il ritorno oggettivo in forma che si sperava. Prendere o lasciare, dicono in giro: hanno ragione. Si perde a suo modo anche Amos Gitai, che con il suo Ana Arabia firma usa un solo pianosequenza di 84 minuti girato in un piccolo quartieri di Jaffa, in Israele, in cui vivono ebrei e arabi. Lo spettatore segue passo per passo il girovagare di una giornalista che arriva per scrivere un articolo. Il film è molto più facile da ammirare che godere, sia a livello emotivo che concettuale. Lo si ammira perché il pianosequenza è gestito in modo notevole: la giornalista cammina soprattutto in esterni, poi capita che entri anche in una casa. La gestione dello spazio è ammirevole, così come il ritorno in scena dei vari personaggi. Il finale, poi, è bellissimo. Ma è innegabile che Ana Arabia sia un film piuttosto respingente, ed è difficile (anche se si presta la massima attenzione) provare un interesse sincero per quello che i personaggi dicono. Anche se i temi sono importanti, va da sé. Oggi è una giornata ricchissima. Oltre al film di Gitai in concorso si vedranno Under the Skin, il chiacchierato film con Scarlett Johansson “aliena”, e The Unknown Know, il documentario di Errol Morris. Due grandi carte nel fuori concorso: lo “scandalo” annunciato di Kim Ki-duk, Moebius, e Harlock: Space Pirate, tra i titoli più attesi in assoluto della Mostra. Segnaliamo in Orizzonti anche Still Life di Uberto Pasolini (da noi già recensito) e il documentario The Armstrong Lie del Premio Oscar Alex Gibney.

2 settembre: noir d’autore per Xavier Dolan; Miyazaki saluta ed anticipa il proprio ritiro


A cura di Antonio Maria Abate

Ed anche questo primo di settembre viene archiviato. Particolarità di questa giornata di Festival sta nella presenza del film più deludente e di uno che rischia seriamente d’imporsi, a qualunque titolo. Partiamo dal primo, perché si dice che la precedenza vada sempre data alle cattive notizie. Di Parkland ne abbiamo già discusso in sede di recensione, alla quale prontamente vi rimandiamo. Di altro possiamo aggiungere gli umori qui al Lido, che in maniera pressoché unanime sembrano essere più che ben disposti a relegare il film di Landesman nell’abisso di una Mostra sino ad ora più che soddisfacente.

Tonfo, quello di Parkland, acuito dalla sua presenza in Concorso, all’interno del quale fa la figura della mosca bianca. In compenso, giusto per passare alla buona notizia, in serata è toccato al giovane Xavier Dolan. Il suo Tom à la ferme è un piccolo gioiello che splende di luce propria: accattivante, arguto, ambiguo quanto basta e girato con stile sebbene su questo versante il regista canadese si sia contenuto. Un noir alquanto originale, asfissiante per quei suoi palesi echi kafkiani, che trasmette un senso d’oppressione tangibile per buona parte del film. Fino a quell’epilogo, nient’affatto scontato e denso di classe.

Ultimo dei tre film in Concorso, il greco Miss Violence (qui la recensione), dramma familiare sconcertante che mette in scena una casa degli orrori. Anche in questo caso, mezze misure non pervenute: c’è chi lo ha amato e c’è chi l’ha odiato. D’altronde la tematica è forte, alcune scene lo sono ancora di più. Chi scrive l’ha trovato d’impatto, eccessivamente costruito magari, certo, ma che nonostante tutto lavora piuttosto bene. Peccato per il finale.

Infine spazio a The Sacrament, film abbastanza piccolo di Ti West che porta a casa un buon risultato con il minimo sforzo. In una zona sperduta, non distante dagli Stati Uniti, una setta pseudo-religiosa edifica un’oasi apparentemente pacifica, immersa nel verde: lo chiamano Eden, paradiso in terra. E come tutti i vani tentativi di avvicinare cielo e terra, l’epilogo non può che essere devastante.

Nelle prossime ore, invece, ci aspettano due altri titoli in Concorso, ossia The Zero Theorem di Terry Gilliam e Ana Arabia di Amos Gitai. Da segnalare anche la proiezione di Locke, film Fuori Concorso di cui in questi giorni si dice un gran bene. Per concludere, non possiamo esimerci dal menzionare il chiacchierato ritiro di Hayao Miyazaki, che a meno di ventiquattr’ore dalla proiezione di The Wind Rises anticipa l’annuncio del suo ritiro, suscitando il dispiacere dei tanti fan sparsi per il globo, i quali forse dovevano anche aspettarsi una notizia di questo tipo. Un conto è aspettarselo, altro è sederti a tavola e non avere il tempo di addentare il primo boccone quando ti arriva una telefonata a cui avresti preferito non rispondere.

1 settembre: Judi Dench da Oscar nel commovente Philomena; è il giorno di Miyazaki


A cura di Gabriele Capolino

Probabilmente annebbiato dalla stanchezza o da problemi personali, c’è chi vi dirà che The Wind Rises è un film noioso. Il nostro consiglio è di prendere il commento con le pinze, come dovrete prendere con le pinze anche il nostro giudizio: perché qui in bottega siamo molto favorevoli a questo ritorno di Hayao Miyazaki. Che se con Ponyo sulla scogliera firmava il suo film più “infantile”, con The Wind Rises firma il suo film più “maturo”. Ciò non significa che sia il suo più bello, che sia il suo capolavoro e che sia un film per tutti i fan, perché innanzitutto Miyazaki ha fatto qualcosa di inedito. Scordate la fantasia di alcune tra le sue fatiche più amate e gettatevi tra le braccia di quest’opera sentita e ricca di “realismo poetico”, e resterete soddisfatti. La storia è ricca e complessa, e si dipana in un periodo temporale lunghissimo, dall’inizio del 1900 fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Miyazaki ragiona indirettamente sulla Storia del suo paese, è vero, e relega il fantasy alle sequenze oniriche del protagonista, progettista di aerei che fuma come un turco. Ma The Wind Rises è innanzitutto una pellicola che parla di passioni e di amore. Lo fa con un racconto non immediato da seguire, e questo a certa parte del pubblico del festival non sarà andato a genio: lo rivedremo, tutti. Richiede pazienza, chiede allo spettatore di prestare attenzione: ma l’ultimo, devastante atto ripaga alla grande a livello emotivo. Un film per un pubblico pronto, adulto e consapevole. Gioca facile invece Stephen Frears, che con Philomena firma il suo film più bello da The Queen. Una sceneggiatura ad orologeria scritta da Jeff Pope assieme al bravissimo co-protagonista Steve Coogan crea una base perfetta per far lavorare al meglio Judi Dench, ovviamente perfetta. Se vi state domandando se è il caso di parlare di nomination agli Oscar, vi rispondiamo senza ombra di dubbio di sì, anche perché alle spalle c’è Weinstein. La Coppa Volpi, poi, è ipotecata da almeno un mese. Se il film all’inizio può dare la sensazione di essere troppo leggero e “inglese”, grazie ad potente snodo narrativo comincia a diventare sempre più profondo. Allora ci si immerge appieno nella storia, si viaggia con Philomena alla ricerca del figlio e di tante, troppe verità, e della donna si ammira tutto. Un ottimo crowdpleaser, di quelli che non ti vergogni ad amare e per il quale non ti penti di aver versato copiosamente molte lacrime. Convince meno James Franco con Child of God, ma le critiche che ha ricevuto sono francamente troppo dure. Il film sarà pieno zeppo di difetti, alla lunga diventa pure noiosetto: ma è crudo e sporco a dovere, rispetta McCarthy ed ha un protagonista bravissimo (Scott Haze). Ma le perplessità restano, certo. Così come restano perplessità anche per Palo Alto, opera prima di Gia Coppola tratta da una serie di racconti brevi dello stesso Franco. Le facce sono quelle giuste, ad iniziare da quella di Jack Kilmer, figlio di Val (che ha un gustoso cameo), che a tratti ricorda addirittura River Phoenix. Tutti sono in parte, la musica è buona, la fotografia funzionale. Ma l’ affresco di vita adolescenziale senza bussola questa volta sa troppo di già visto: come se la Coppola avesse pescato da tutti quelli che hanno spianato la strada al sottogenere (da Van Sant a Clark passando per Korine) e abbia solo rimescolato le carte. Oggi il concorso continua con il corale Parkland di Peter Landesman, il già citato The Wind Rises di Miyazaki e il greco Miss Violence di Alexandros Avranas. È anche il turno, nelle Giornate degli Autori, di Giovani ribelli – Kill Your Darlings con Daniel Radcliffe e un superbo Dane DeHaan. La stampa la sera potrà poi già vedere anche Tom à la ferme di Xavier Dolan, da cui ci aspettiamo grandi cose.

31 agosto: il Lido si tinge a stelle e strisce per un giorno


A cura di Antonio Maria Abate

L’America si spara le sue due cartucce più potenti della vigilia, con una combo che ha portato al Lido nella stessa giornata Joe di David Gordon Green e Night Moves di Kelly Richardt. Entrambi ambientanti nei sobborghi statunitensi, in pieno spirito indie. Il primo lascia a bocca aperta, con un Nicolas Cage in versione eroe ambiguo da nodo alla gola. Joe è un film radicalmente a stelle e strisce, dolce e spietato, costruito in maniera pressoché impeccabile. Una parabola che parla di amicizia, quella vera, e di come la miseria sia un male ben peggiore della povertà, con la quale non condivide proprio nulla. In questo barcamenarsi tra i due opposti, Gordon Green trova un suo eccezionale equilibrio, acquisizione che si avverte per l’intera durata del film e che difatti colpisce in maniera alquanto diretta. Fino ad ora il migliore tra i film in Concorso.

Discorso a parte invece per Night Moves, con una Richardt innegabilmente capace, abile nella messa in scena di una storia che però non convince in toto. Si resta perciò interdetti per come un film così ordinato non riesca a scardinare come si deve tutte le serrature. Buona prova di Jesse Eisenberg, qui nei panni di un ragazzo alla deriva, giunto oramai ai margini di stesso. Peccato però che, a dispetto di un’ottima regia, il film non riesca a far breccia.

In serata spazio anche per la prima proiezione di Kill Your Darlings, opera senza infamia e senza lode che si lascia bere tutto d’un fiato. Notevoli le prove di Daniel Radcliffe e Dane DeHaan, qui impiegati rispettivamente nei panni di Allen Ginsberg e Lucien Carr, due dei principali iniziatori della Beat Generation. Il film mescola un po’ le carte, assumendo i connotati di un biopic a tinte noir sul finire, con qualche leggera spolverata di romanticismo. Archiviato però questo 30 Agosto, è già al programma della quarta giornata che guardiamo con estremo interesse.

Per chi scrive domani è essenzialmente il giorno di Hayao Miyazaki, che torna a Venezia a distanza di cinque anni da Ponyo sulla scogliera. The Wind Rises verrà finalmente mostrato alla stampa in prima serata, ed è inutile aggiungere che non vediamo l’ora. Ma fra poche ore sarà anche il turno di Stephen Frears con il suo Philomena, storia di una madre alla ricerca del figlio dopo anni dall’abbandono forzato. Principale motivo d’interesse? Al momento senz’altro Judi Dench. A questo, per chiudere, va ad aggiungersi Child of God di James Franco, tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, nient’affatto nuovo a questo genere d’operazioni: suoi sono i romanzi da cui sono stati tratti The Road ma soprattutto Non è un paese per vecchi.

30 Agosto: Philip Gröning tramortisce il pubblico della Mostra


A cura di Antonio Maria Abate

Seconda giornata qui al Lido. Difficile ripartire con lo stesso piglio di ieri, dove Gravity, perdonate il giochino, ha letteralmente calamitato su di sé gran parte dell’attenzione, mediatica e non. Eppure oggi è stato il giorno del primo film italiano in Concorso, ossia Via Castellana Bandiera (qui la nostra recensione), di Emma Dante. La regista palermitana esordisce con un progetto alquanto ambizioso, sebbene piccolo. Coraggiosa, infatti, ci è parsa l’idea trasporre sul grande schermo una storia di quel tipo; anche se c’è da dire che non parte male. Prima parte brillante, scritta con brio, e che fila liscia come l’olio; poi l’impennata, con una pièce teatrale improvvisata per strada. Ritmo serrato, risate assicurate. Poi il film si sgonfia gradualmente, sino a quel finale che pure a distanza di ore continua a non convincere. Altro? Ci mancherebbe!

Altro film in Concorso è infatti quello dell’australiano John Curran, Tracks (qui la nostra recensione), sulla falsa riga di tutta una sequela di racconti a sfondo naturalistico, e che non a caso è tratto dal best seller di Robyn Davidson, protagonista di questa storia ambientata nel deserto australiano. Un’opera abbastanza asciutta (qualcuno direbbe canonica), ma che a prescindere da qualsivoglia etichetta va al sodo senza troppi fronzoli. Il bello è che, limitatamente a ciò che si propone, Tracks riesce eccome. Una Mia Wasikowska che regge senza nemmeno troppa fatica per l’intera durata del film, che è un po’ l’illustrazione della differenza che intercorre tra viaggio ed avventura. Certi suggestivi panorami, parte integrante del racconto, non fanno poi che impreziosire una storia che volutamente calca la mano sulla componente descrittiva.

In serata è stato anche il turno della prima di The Police Officer’s Wife, opera rigorosissima di Philip Gröning che ha messo davvero a dura prova l’intera sala Darsena, a prescindere da chi l’ha gradito o meno. A onor del vero tante sono state le defezioni in corso d’opera, per certi aspetti comprensibili (per quanto non condivisibili) se si pensa alla struttura di un film che scoraggia in ogni modo, ma a che dispetto di ciò cela più di una virtù. Da qui la fatica di portarlo a termine probabilmente.

Applausi a scena aperta nel pomeriggio per Edgar Reitz ed il cast dell’ultimo tassello della sua epopea lungo la storia della Germania, ossia Die Andere Heimat: 230 minuti che appagano, dato che, nonostante tutto, filano abbastanza lisce. Ennesima parabola generazionale, stavolta ambientata a metà ‘800, con il solito piglio di Reitz, che sa farci entrare nei delicati equilibri dei suoi personaggi, come sempre vivi, credibili. Ieri invece abbiamo avuto modo di intrufolarci anche per la prima di Sorcerer in versione rimasterizzata. Un pezzo da novanta che conferma per l’ennesima volta quanto di certo cinema sporco ed intenso del maestro William Friedkin se ne senta il bisogno. Non a caso il regista americano è stato oggi ufficialmente insignito del Leone d’Oro alla carriera, riconoscimento che la Mostra ha deciso di assegnare a Friedkin a dodici mesi dal premio a Michael Cimino (che l’anno scorso portò qui a Venezia I cancelli del cielo).

Per la terza giornata di Festival, in cartellone abbiamo quella che probabilmente può considerarsi il cinema statunitense più atteso, ossia Joe di David Gordon Green e Night Moves di Kelly Reichardt. Da segnalare anche The Canyons di Paul Schrader per il Fuori Concorso. Per chiudere, segnaliamo inoltre che nella stessa giornata avrà pure inizio la Biennale College, che apre con il film dell’italiano Alessio Fava, Yuri Esposito.

29 Agosto: dopo la splendida apertura con Gravity parte il concorso


A cura di Gabriele Capolino

Credo di poter dire di non aver mai visto un film d’apertura così bello in otto anni che frequento i festival di cinema. La sparo troppo grossa? Giudicherete voi quando avrete la possibilità di vedere (sul grande schermo, e ripeto!, solo sul grande schermo) ciò che Alfonso Cuaron è riuscito a fare con il suo ultimo, clamoroso Gravity (qui la nostra recensione), presentato fuori concorso. Che è pieno di metafore, talvolta pure semplici, e magari non riesce a scampare a qualche eccesso di “retorica”, ma per confermare questa impressione ci vorrà una seconda visione. Seconda visione che io personalmente darò senz’altro a Gravity: che è uno spettacolo senza precedenti, ed è uno dei blockbuster tecnicamente più stupefacenti degli ultimi anni. Un livello “superiore”, ecco. Il pianosequenza d’apertura iniziale già la dice lunga: circa una ventina di minuti in cui c’è modo di assaporare con calma la bellezza della Terra vista dall’alto, entrare in empatia coi personaggi (e il loro lavoro), e sentire il climax di ansia che cresce a livello esponenziale. A tratti manca davvero l’aria, in Gravity, e tra longtake nello spazio e soggettive in cui la Bullock volteggia senza sosta può venire la nausea. Certo, c’è qualche semplificazione a livello di sceneggiatura e qualche soluzione forse un po’ affrettata. E le metafore sulla maternità (l’acqua e la (ri)nascita, le corde con cui si tengono attaccati gli astronati tra loro o la navicella come cordoni ombelicali) sono spiattellate in modo molto chiaro, e per qualche spettatore lo saranno pure troppo. Ma a Cuaron interessa innanzitutto l’esperienza cinematografica più pura, che è assolutamente “perfetta”. D’altronde Cuaron ci ha speso anni a lavorarci su, e stiamo pur sempre parlando del regista di Y tu mama tambien e I figli degli uomini. Se non daranno poi l’Oscar a Emmanuel Lubezki per la sua fotografia incredibile, allora non si sa più cosa deve fare quest’uomo. Infine Gravity ha la miglior Sandra Bullock di sempre (facile, certo), e il miglior 3D di sempre. In più ribadisce il potere della sala cinematografica: non guardatelo in tv, per carità. Correte al cinema appena ne avrete l’opportunità. Uno dei primi fili conduttori che già possiamo notare in questa 70. Mostra è la voglia di giocare e confrontarsi, ragionando anche in modo critico, con il cinema. Lo fa Sion Sono con il suo furioso e splendido Why Don’t You Play in Hell? (in Orizzonti), una “commedia” / gangster movie in cui sono gli stessi gangster, con l’aiuto di alcuni registi mancati, a girare il proprio film. Dopo la parentesi in cui ragionava sul post-Fukushima (Himizu e The Land of Hope), Sono torna nel territorio che conosce meglio – quello più splatter e pazzo – e si diverte un mondo a mettere in scena la realtà gangster mescolata con una realtà, quella del cinema a 35mm, che sta scomparendo. Un film estremo e grottesco come tutto il cinema di Sono, e a tratti pure improvvisamente romantico. Giocano col cinema, accettando la sfida di Alberto Barbera, anche i 70 registi del film collettivo Venezia 70 – Future Reloaded che omaggia le 70 edizioni della Mostra. Tutti hanno realizzato dei corti da 60-90 secondi in totale libertà creativa, con un unico filo conduttore da rispettare: quello appunto di ragionare in qualche modo sul futuro del cinema. Una sfida difficile da concretizzare in un minutino e mezzo, e infatti l’impressione è che in molti non abbiano centrato il punto divagando in questioni filosofiche o ripetendo il proprio cinema. Non a caso il corto forse migliore è quello di Kim Ki-duk, che se ne frega di tutto e tutti e realizza in un minutino un ritratto della madre anziana, che lo chiama al telefono, va a fare la spesa, cucina e mangia assieme a lui. Commuove anche Bertolucci col suo corto in cui, senza mai essere in campo direttamente, riprende le ruote della sua carrozzella che gira per Roma. E a suo modo gioca col cinema anche Bruce LaBruce, che ha presentato Gerontophilia nelle Giornate degli Autori: l’autore “gioca” perché esce dai suoi confini hardcore e prova a fare un cinema più lineare e meno scandaloso. E per un autore abituato ad esplorare lidi molto più spinti dev’essere stata una sfida molto interessante. Del film ne parleremo in modo più approfondito con la nostra recensione. Oggi parte invece ufficialmente il concorso di Venezia 70. Il primo titolo a scendere in campo è italiano, ed è Via Castellana Bandiera di Emma Dante: che compito aprire una manifestazione del genere…! Particolarmente atteso invece Tracks di John Curran con Mia Wasikowska, traversata nel deserto australiano su cammelli con tanto di cane. La stampa poi potrà già vedere il terzo film in concorso, uno dei titoli più hardcore della selezione: The Police Officer’s Wife di Philip Gröning, l’autore de Il grande silenzio. Quasi tre ore di ritratto di famiglia in un interno con più di 50 capitoli da 2-3 minuti messi in ordine acronologico. Una sfida per cinefili puri: vi raccontetermo ovviamente tutto.

28 agosto: piove sul Lido in attesa di Gravity


A cura di Antonio Maria Abate

Pioggia battente qui al Lido. Una giornata che per noi di Cineblog era cominciata piuttosto bene anche dal punto di vista meteorologico: il sole ci ha scortato lungo il tragitto e poi accolto al nostro arrivo a Venezia. Giusto il tempo di sbrigare le pratiche di rito, prendere atto dei lavori in corso a meno di ventiquattro ore dall’apertura vera e propria della Mostra ed eccolo lì… un temporale si abbatte sulla zona del Festival, funestata da un duraturo acquazzone, che bagna anche la prima proiezione ufficiale, ossia quella de L’arbitro di Paolo Zucca, da noi già recensito.

Si guarda già al primo giorno, quel 28 Settembre che in tabellone riporta uno dei titoli più attesi (se non il più atteso) di questa edizione; Gravity di Alfonso Cuarón, film fuori concorso i cui trailer hanno già fatto salivare in molti, e che effettivamente ci hanno fugacemente restituito una pellicola oltremodo promettente. Occhi puntati anche su Die Andere Heimat, prologo del mastodontico progetto portato avanti nel corso degli ultimi trent’anni dal cineasta tedesco Edgar Reitz.

Ricca già da domani la sezione Orizzonti, inaugurata dal film-scandalo annunciato dello stravagante Bruce LaBruce, che con il più che eloquente Gerontophilia porta in scena l’attrazione di un giovanotto verso un anziano residente presso un ospizio. In serata, invece, attesissimo il gangster-movie di Sion Sono, Why Don’t You Play in Hell?, per una sceneggiatura che il regista giapponese scrisse ben quindici anni fa. Per ultimo ci lasciamo una chicca, per cui non vediamo l’ora, ossia la versione restaurata di Sorcerer (Il salario della Paura), perla del 1977 che William Friedkin porta qui a Venezia per celebrare il Leone d’Oro alla carriera che gli verrà consegnato in questi giorni dalla Mostra.

Chiaramente non mancheremo di fornirvi le nostre recensioni in anteprima, oltre agli immancabili aggiornamenti con cui cercheremo di trasmettervi al meglio l’atmosfera che si respira qui al Lido.

Il festival, i film, le speranze di Cineblog

A cura di Gabriele Capolino

26/08/2013Non ha peli sulla lingua, Alberto Barbera, quando parla della sua 70. Mostra del Cinema di Venezia. I film italiani preferiscono Toronto? Balle: il Lido ne ha 20, e solo Luchetti ha preferito non essere alla Mostra, causa precedente scottatura. E Cannes e Toronto soffocano Venezia? Dipende dai punti di vista: uno ha 22 milioni di budget contro 12, l’altro accetta tutto, ed essendo ormai ben consolidati potrebbero anche adagiarsi sulle loro formule. E poi le star non ci sono? Macché: al Lido si vedranno, per dire, George Clooney, Sandra Bullock, Mia Wasikowska, Daniel Radcliffe, Nicolas Cage, Tom Hardy, Scarlett Johansson, Lindsay Lohan, Richard Madden… Insomma, Barbera non le manda a dire, in un momento in cui la Mostra è sotto attacco. Passato il “pericolo” Roma – se mai è esistito -, ora dubbi, perplessità e critiche della stampa sono tutte per strutture e programma. Ma a rispondere, oltre al Direttore, ci sono e ci saranno loro: i film stessi. Dimenticata la delusione 12 Years a Slave di Steve McQueen, secondo Barbera l’unica pellicola che con grande dispiacere non è riuscito a portare al Lido, ci sono una sessantina di titoli da testare. Tra concorso e fuori concorso, occhio soprattutto alla sezione Orizzonti (piena, pienissima di chicche!) e ai tre film di Biennale College – Cinema. Oltre alle selezioni della Settimana della Critica e delle Giornate degli Autori. Per quanto ci riguarda, in concorso ci sono film attesissimi. Suscita curiosità il trio italiano, tra cui spicca Sacro GRA di Gianfranco Rosi, che assieme a The Unknown Known di Errol Morris – altro film che attendiamo con trepidazione – stabilisce un bel record per la Mostra 2013: due documentari in corsa per il Leone d’oro. E Barbera non ha dubbi: sono così belli che non si poteva non cogliere la palla al balzo per scardinare la dicotomia fiction/documentario anche in un concorso ufficiale come quello di Venezia. L’America pare in formissima. Due dei migliori autori indipendenti dei 2000 mostreranno i loro nuovi lavori: David Gordon Green con Joe (dopo il notevole Prince Avalanche, miglior regia a Berlino, ci aspettiamo un ulteriore passo avanti per un recupero totale dopo le commedie sceme) e Kelly Reichardt con Night Moves, girato ancora in Oregon. Parkland farà brillare il red carpet, mentre James Franco con Child of God ottiene per la prima volta il nulla osta per un concorso internazionale. Stessa sorte (finalmente!) del 24enne canadese Xavier Dolan, che col suo quarto film, Tom à la ferme, entra per la prima volta in una competizione: Cannes lo aveva sempre relegato nella Quinzaine e nel Certain Regard. E se l’Inghilterra sfodera un trio notevole (Gilliam, Frears e soprattutto Glazer con l’attesissimo Under the Skin), l’Oriente gioca con due assi: Miyazaki e Tsai, che porta il suo ultimo film, nel vero senso della parola… Stray Dogs, assieme a The Police Officer’s Wife di Philip Gröning, è il film d’autore puro e crudo del concorso, quello che metterà alla prova chi un accredito lo ottiene quasi per caso e ripagherà quasi sicuramente il cinefilo più appassionato. Non a caso noi puntiamo gli occhi proprio su questi due titoli, ad oggi, per il Leone d’oro o un premio che conta. Così come siamo pronti a scommettere sulla Coppa Volpi per Judi Dench e un premio importante per due autori cult e impegnati come Garrel e Gitai. Non mancheranno di certo le polemiche, anzi. The Canyons del Presidente di Orizzonti Paul Schrader porta sul red carpet Bret Easton Ellis, Lindsay Lohan e il porno-attore James Deen. Moebius di Kim Ki-duk assicura shock grazie a incesti e violenza estrema (leggete bene in giro: il selezionatore Bruno Fornara lo descrive come “Peni d’amor perduti”). Gerontophilia di Bruce LaBruce sarà scandaloso solo per noiosi critici conservatori e signore impellicciate, ma farà discutere. Amen. Il 28 si apono ufficialmente le danze con l’attesissimo Gravity di Alfonso Cuarón, sci-fi d’autore ricca di suspense e pianisequenza da urlo. Segue il film che festeggia le 70 edizioni della Mostra del Cinema: Venezia 70 – Future Reloaded. 70 corti di 70 autori che hanno fatto la Storia del festival, tra cui Bertolucci, Breillat, Bressane, Denis, Egoyan, Franco, Gerima, Gitai, Hellman, Hong, Jia, Kiarostami, Kim, Lanthimos, Larraìn, Maoz, Mendoza, Naderi, Olmi, Piavoli, Salles, Schrader, Seidl, Solondz, Sono, Straub, Tsukamoto, Weerasethakul… E c’è chi ancora dice che al Lido manca qualcosa o qualcuno. Noi rispondiamo: ma chi l’ha ordinata tutta ‘sta roba? Cineblog seguirà la Mostra come ogni anno. Oltre alle nostre recensioni in anteprima, non perdete il diario giornaliero che io e Antonio terremo dal Lido, aggiornando questa pagina volta per volta, per aggiornarvi su tutto quello che accade a Venezia 2013. Abbiamo trovato il Leone d’oro? Stray Dogs di Tsai Ming-liang è tra i papabili per il premio. Ma in concorso sbarcano oggi anche Garrel e Rosi.

Festival di Venezia